giovedì 7 aprile 2011

La scuola del bunga bunga

Lascia allibiti l’ultimo attacco di Berlusconi a una scuola pubblica ormai ridotta allo stremo. Senza più risorse materiali e umane

di Matteo Martelli

Abbiamo l’onore di ospitare a Palazzo Chigi un Presidente apprezzato, stimato e onorato in tutto il mondo! L’Economist ha scherzato sulla sua “inadeguatezza”. Il Finantial Times lo ha semplicemente definito “salvatore della patria”. Il Daily Telegraph ha soltanto giocato con il circo presentandolo come “clown”. Al Foreign Policy è sfuggita la definizione di “stato bordello” per quello italiano dei nostri giorni. Le Figaro ha affidato a un sondaggio il giudizio sul signor B.: purtroppo è risultato essere “il leader più impopolare d’Europa”. Ma il signor B. gode in Italia del più largo consenso che mai leader italiano abbia registrato (almeno in base ai sondaggi da lui commissionati e pagati). Può permettersi di stracciare gli avversari, di ordinare a giornali, settimanali e televisioni come distruggere gli oppositori, come zittire Fini, come dare del pataccaro a Bersani. Comprare l’appoggio di senatori e deputati. Attaccare la Magistratura, la Corte Costituzionale, il Presidente della Repubblica. Sostenere, stipulando affari, tiranni e dittatori (Putin, Mubarak, Gheddafi).
Come lo giudicherà la Storia? È la domanda che “Limes” (6, 2010) ha posto a Luciano Cafagna. E lo storico ha risposto elencando aspetti e problemi connessi al successo della “discesa in campo”: l’impeto disgregatore dell’antipolitica e del populismo; la distruzione del sistema dei partiti e la nascita dei “partiti” proprietà, dominati dal “principe”, dalla figura carismatica; le insofferenze e quindi la negazione delle regole, a cominciare dalle norme legali e dai principi costituzionali. È l’ideologia dell’antistato il frutto più cospicuo dell’era berlusconiana: che si traduce nella guerra a ogni vincolo comunitario, nell’esaltazione dell’individualismo esasperato (privo di qualsiasi vincolo morale), nell’elogio dell’evasione fiscale, nella celebrazione della forza del denaro, nel sostegno al sistema dei favori, degli scambi, della corruzione, dell’illegalità. A bocce ferme, dopo il declino del signor B. e la fine del regime di democrazia senza qualità, sarà necessario indagare sulle cause del ventennio antidemocratico e sui lasciti del disastro economico, legale, finanziario, istituzionale. 
La scuola, l’università e la cultura (facile bersaglio delle “riforme storiche, epocali”) ne usciranno stravolte. L’università offrirà un paesaggio di desolazione. Senza risorse materiali e umane; incapace di confrontarsi con gli atenei non solo dell’Occidente ma anche dei Paesi non sviluppati. E i giovani, se intenderanno studiare e lavorare nella ricerca, dovranno espatriare. La rincorsa a fondare nuove università private non riuscirà a soddisfare la domanda di istruzione, formazione e alta cultura avanzata dalle nuove generazioni e soprattutto dai giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti, di origine italiana o straniera. I beni ambientali e culturali andranno alla deriva. Ci troveremo un’Italia impoverita, svenduta, insicura, trafitta nella sua identità. Dovremo partire dalle rovine provocate dal berlusconismo e ricostruire il Paese: il patto tra i cittadini, una comune cultura politica, il rispetto e la tutela del paesaggio e delle ricchezze ambientali e artistiche.

Il sistema scolastico (infanzia, primo e secondo ciclo) ha avuto il privilegio di una cura particolare. Siamo tornati ai livelli di cinquant’anni fa, con richiami a situazioni ottocentesche, quando l’istruzione era un privilegio di pochi e le classi padronali, affiancate autorevolmente dalla Chiesa cattolica, si opponevano all’obbligo scolastico, perché imparare a leggere e far di conto era pericoloso per la pace sociale. Dare «a tutti gli ordini sociali la medesima istruzione non è solo vanità, ma danno», scriveva il grande critico della letteratura italiana e ministro dell’Istruzione, l’irpino Francesco de Sanctis; i figli del popolo possono apprendere soltanto le conoscenze e i comportamenti «utili alla vita reale delle famiglie e de’ luoghi», che siano «conforto a rimanere nella condizione sortita dalla natura, anziché incentivi ad abbandonarla», gli faceva eco un altro ministro dell’Istruzione, il piemontese Michele Coppino. E non è stato sufficiente il “lavoro” svolto dalla ministra Gelmini: ha sforbiciato irrazionalmente gli organici; ha privato le istituzioni scolastiche dei finanziamenti necessari (meno 8 miliardi di euro in tre anni!); ha distrutto gli effetti positivi che nella scuola dell’infanzia e nel primo ciclo si erano prodotti grazie alle lungimiranti riforme degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta; ha destrutturato l’intero sistema scolastico; ha demotivato dirigenti, sempre più oberati da oneri insostenibili (ormai viaggiamo verso i tremila incarichi di reggenza!); non ha saputo affrontare l’annoso problema del precariato; non ha dedicato alcuna attenzione all’edilizia scolastica e alla sicurezza (abbiamo scuole malridotte, edifici inabitabili e fuori norma). Era necessario, tra gli osanna dei servitori e della ministra, lo “schiaffo” che il Presidente ha dato alla scuola di stato, ai dirigenti, ai docenti e a tutti quelli che quotidianamente vi lavorano. 
«Come al solito – ha dichiarato il 27 febbraio scorso Berlusconi – anche le parole che ho pronunciato sulla scuola pubblica sono state travisate e rovesciate da una sinistra alla ricerca, pressoché ogni giorno e su ogni questione possibile, di polemiche infondate, strumentali e pretestuose. Desidero perciò chiarire nuovamente senza possibilità di essere frainteso, la mia posizione sulla scuola (…) Le mie parole, perciò, non possono essere in alcun modo interpretate come un attacco alla scuola pubblica, ma al contrario come un richiamo al valore fondamentale della scuola pubblica, che presuppone libertà d’insegnamento ma anche ripudio dell’indottrinamento politico e ideologico». 

Il signor B. aveva detto il giorno prima al Convegno dei Cristiani-Riformisti: «Crediamo concretamente nell’individuo e riteniamo che ciascuno debba avere il diritto (…) di poter educare i figli liberamente. Liberamente vuol dire non essere costretti di mandarli a scuola, in una scuola di stato dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli educandoli nell’ambito delle loro famiglie».
Ogni lettore può confrontare i due testi. A una elementare esegesi risulta quanto segue. Il signor B. accusa gli insegnanti della scuola di stato di inculcare princìpi contrari a quelli che i genitori vogliono inculcare nei loro figli. Primo dato: nella scuola di stato non si possono inculcare princìpi, perché ai docenti non si chiede di insegnare alcuna dottrina o ideologia (l’insegnamento è libero, nella scuola di stato – art. 33 della Costituzione). I genitori non sono “proprietari” dei figli, devono rispettarli e non devono inculcare in essi “principi”, ma educarli al rispetto di sé e degli altri. Il signor B. non si corregge nella dichiarazione del 27 febbraio, anzi è ancora più aggressivo nei riguardi della scuola di stato accusandola di indottrinare ideologicamente gli allievi. Ora, si sa che questo può succedere nelle scuole di appartenenza, religiosa o culturale, e non certamente nella scuola statale, di tutti e per tutti (la scuola di stato è l’unica veramente libera, perché non ideologica né religiosa). Insomma, l’indottrinamento politico e ideologico non abita nella scuola di stato. E se ci sono fenomeni di abuso di potere da parte di docenti o di altri abbiamo gli strumenti e le norme per stroncarli. Casomai l’intervento di vigilanza dovrà essere esercitato nelle scuole “private”, cattoliche o meno, curiosamente dette “libere” (da che cosa: dall’ideologia, dai dogmi e dai dettami della fede?) per garantire che agli studenti sia assicurato “un trattamento… equipollente a quello degli alunni delle scuole statali” (ib., art. 33).

Salvatore Settis (la Repubblica, 1 marzo 2011) ha osservato: il sig. B. ritiene che educare (in famiglia, nella scuola statale o in quella privata) consiste nell’inculcare principi. E si chiede: «Fino a quando lasceremo che “inculchi” impunemente nell’opinione pubblica l’idea perversa che compito di un governo della Repubblica è smantellare lo stato, sbeffeggiando chi serve il pubblico interesse?». Noi ci chiediamo: il sig. B. ha mai avuto idea di cosa significa educare? Un uomo pubblico che si comporta come lui: che organizza festini con minorenni, escort e lenoni; che ricompensa con somme ingenti le prestazioni delle ragazze e dei mediatori; che senza alcun pudore racconta bugie al telefono, in Tv e in parlamento; che promuove alle più alte cariche dell’amministrazione pubblica il “ciarpame” denunciato dalla signora Lario, quale concezione dello stato, dell’educazione e della scuola può avere? 
Forse il signor B., quando parla di scuola, scambia la scuola di stato con la sua, pensa alla scuola del bunga bunga, aperta con successo ad Arcore, in Italia! 





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