lunedì 28 febbraio 2011

quando invece di diminuirle si aumentano le disuguaglianze possono solo nascere rivolte da parte di coloro che subiscono tutto questo

LA DISUGUAGLIANZA IN AMERICA È PEGGIO CHE IN EGITTO, TUNISIA E YEMEN


FONTE: WASHINGTON'S BLOG

I manifestanti egiziani, tunisini e yemeniti dicono tutti che la disuguaglianza è uno dei motivi principali per cui stanno protestando. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno attualmente un grado di disuguaglianza assai maggiore rispetto ad uno qualsiasi di questi paesi.

In particolare, il "coefficiente di Gini" – lo schema che gli economisti utilizzano per misurare la disuguaglianza - è più elevato negli Stati Uniti.

I coefficienti di Gini sono come nel golf - più basso è il punteggio, meglio è (cioè l'uguaglianza è maggiore).

Secondo il CIA World Fact Book, gli Stati Uniti sono classificati al 42esimo posto nel mondo tra i paesi con più disuguaglianze, con un coefficiente di Gini di 45.

Al contrario:

La Tunisia è classificata come il 62esimo paese, con un coefficiente di Gini di 40.
Lo Yemen è classificato come il 76esimo paese, con un coefficiente di Gini di 37,7.
E l'Egitto è classificato come il 90esimo paese, con un coefficiente di Gini di circa 34,4.


[Al link immagine ingrandita]

E la disuguaglianza negli Stati Uniti è aumentata vertiginosamente negli ultimi due anni, dall'ultima volta in cui il coefficiente di Gini era stato calcolato, e senza dubbio è attualmente molto più elevato.
Perché gli egiziani sono in tumulto, mentre gli americani sono soddisfatti?

Beh, gli americani - fino a poco fa - sono stati tra le persone più ricche del mondo, con abbondanza di comfort (e/o di intrattenimento) e cibo in eccedenza.

Ma un'altra ragione è che - come Dan Ariely della Duke University e Michael I. Norton della Harvard Business School dimostrano – gli americani costantemente sottovalutano il grado di disuguaglianza nella nostra nazione.

Come William Alden ha scritto lo scorso settembre:

Gli americani sottovalutano notevolmente il grado di disparità di ricchezza in America, e riteniamo che la distribuzione dovrebbe essere molto più equa di come effettivamente è, secondo anche un nuovo studio.

O, come gli autori dello studio hanno detto: "tutti i gruppi demografici--anche quelli solitamente non concordi con la ridistribuzione della ricchezza, come i repubblicani e i ricchi-- hanno desiderato una più equa distribuzione della ricchezza rispetto allo status quo".

La relazione... "Building a Better America – One Wealth Quintile At A Time” di Dan Ariely della Duke University e Michael I. Norton della Harvard Business School... mostra che attraverso gruppi ideologici, economici e di genere, gli americani pensavano che il 20% più ricco della nostra società controllasse circa il 59% della ricchezza, mentre il numero reale è più vicino all'84 %.

Ecco lo studio:

COSTRUIRE UN' AMERICA MIGLIORE– UN QUINTILE DI RICCHEZZA ALLA VOLTA

Di Michael I. Norton (Harvard Business School), Dan Ariely (Duke University)

Di prossima pubblicazione su “Perspectives on Psychological Science”

Indirizzo per la corrispondenza: Michael I. Norton, Harvard Business School, Soldiers Field Road, Boston, MA 02163, mnorton@hbs.edu; o Dan Ariely, Duke University, uno Towerview Road, Durham, NC 27708, dandan@duke.edu. Ringraziamo Jordanna Schutz per i suoi numerosi contributi, George Akerlof, Lalin Anik, Ryan Buell, Zoë Chance, Anita Elberse, Ilyana Kuziemko, Jeff Lee, Jolie Martin, Mary Carol Mazza, David Nickerson, John Silva ed Eric Werker per i loro commenti e surveysampling.com per la loro assistenza nell'amministrare l'indagine.

Abstract

Disaccordi circa il livello ottimale di disparità di ricchezza sono alla base di dibattiti politici che vanno dall'imposizione delle tasse al benessere. Si tenta di inserire in questi dibattiti, i desideri degli americani “medi", chiedendo un pannello online rappresentativo a livello nazionale per stimare l'attuale distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti e per "costruire un'America migliore" mediante una ridistribuzione con il loro livello ideale di disparità. In primo luogo, gli intervistati hanno molto sottovalutato il livello corrente di disparità di ricchezza. In secondo luogo, hanno costruito distribuzioni di ricchezza ideali molto più eque anche rispetto alle stime da loro erroneamente fatte della distribuzione effettiva. Più importante è che, da una prospettiva politica, abbiamo osservato un sorprendente livello di consenso: tutti i gruppi demografici – anche quelli di solito non d'accordo con la ridistribuzione della ricchezza, come i repubblicani e i ricchi – hanno desiderato una più equa distribuzione della ricchezza rispetto allo status quo.

Molti studiosi concordano che la disparità di ricchezza negli Stati Uniti è a livelli storici, con alcune stime, che suggeriscono che l'1% degli americani detengono quasi il 50% della ricchezza, toccando anche i livelli visti poco prima della grande depressione degli anni venti (Davies, Sandstrom, Shorrocks & Wolff, 2009; Keister, 2000; Wolff, 2002). Mentre è chiaro che la disparità di ricchezza è alta, determinare la distribuzione della ricchezza in una società ideale ha dimostrato essere un problema intrattabile, in parte perché diverse convinzioni circa la distribuzione ideale della ricchezza sono la fonte di attriti tra i responsabili politici che pianificano la distribuzione: i fautori dell' "imposta di successione su beni immobili," per esempio, sostengono che la ricchezza che i genitori lasciano in eredità ai loro figli dovrebbe essere tassata più pesantemente rispetto a quelli che si riferiscono a questa politica come ad una gravosa "imposta di succesione”.

Dobbiamo adottare un approccio diverso per determinare il livello "ideale" di disparità di ricchezza: seguendo il filosofo John Rawls (1971), chiediamo agli americani di ipotizzare una distribuzione della ricchezza che ritengono giusta. Naturalmente, questo approccio può semplicemente aggiungere confusione se gli americani sono in disaccordo circa la distribuzione della ricchezza ideale come i responsabili politici. Così, abbiamo due obiettivi principali. In primo luogo, dobbiamo esplorare se c'è un consenso generale tra gli americani circa il livello ideale di disparità di ricchezza o se le differenze – guidate da fattori quali le convinzioni politiche ed il reddito – superano di gran lunga qualsiasi consenso (cfr. McCarty, Poole & Rosenthal, 2006). In secondo luogo, ottenendo un consenso sufficiente, speriamo di inserire le preferenze "degli americani medi" per quanto riguarda la disparità di ricchezza nei dibattiti politicici.

Online un campione di intervistati rappresentativo a livello nazionale (N = 5,522, 51% di sesso femminile, Mage = 44,1), casualmente preso da un gruppo di oltre un milione di americani, ha completato l'indagine a dicembre del 2005. [1] Il reddito degli intervistati (in media = 45.000 dollari) era simile a quello segnalato nel censimento degli Stati Uniti del 2006 (in media = 48.000 dollari) e il loro intento di voto nelle elezioni del 2004 (50,6% Bush, 46,0% Kerry) anch'esso era simile al risultato effettivo (50,8% Bush, 48,3% Kerry). In più, del campione fanno parte intervistati di 47 Stati.

Abbiamo garantito che tutti gli intervistati avevano lo stesso inquadramento economico richiedendo loro di leggere quanto segue prima di avviare l'indagine: "la ricchezza, nota anche come patrimonio netto è definito come il valore totale di tutto ciò che qualcuno possiede meno qualsiasi obbligazione o debito. Il patrimonio netto di una persona include i soldi sul conto corrente bancario più il valore di altre cose come le proprietà, le azioni, le obbligazioni, in beni artistici, le collezioni, ecc., meno il valore delle cose come prestiti e mutui".

Gli Americani Preferiscono la Svezia

Per prima cosa, abbiamo creato tre grafici a torta senza etichetta, concernenti la distribuzione della ricchezza, uno dei quali raffigurava perfettamente un'equa distribuzione. All'insaputa degli intervistati, una seconda rappresentazione raffigurava la distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti; al fine di creare una proiezione con un livello di disuguaglianza che apparisse chiaro, abbiamo costruito un terzo grafico a torta a partire dalla distribuzione del reddito in Svezia (figura 1). [2] Ci siamo presentati agli intervistati con le tre combinazioni di questi grafici a torta (in ordine casuale) e abbiamo chiesto loro di scegliere quale nazione avrebbero ritenuto più vicina al "pensiero di Rawls" per la determinazione di una società giusta (Rawls, 1971): "Nel considerare questa domanda, immaginate che se aveste aderito a questa nazione, vi sarebbe stata assegnata in modo casuale una collocazione, i modo che avreste potuto finire ovunque in questa distribuzione, dai molto ricchi ai poverissimi".

Come si può vedere nella figura 1, la distribuzione degli Stati Uniti (senza etichetta) è stata molto meno scelta sia rispetto alla Svezia (senza etichetta) che a quella equa, con il 92% degli americani che preferiscono la distribuzione della Svezia a quella degli Stati Uniti. In aggiunta, questa schiacciante preferenza per la Svezia rispetto agli Stati Uniti è stata forte in generale (femmine: 92,7%; maschi: 90,6%), come la preferenza per il candidato nelle elezioni del 2004 (gli elettori di Bush: 90,2%; gli elettori di Kerry: 93,5%) e il reddito (meno di 50.000 dollari: 92,1%; 50.001-100,000 dollari: 91,7%; più di 100.000 dollari: 89,1%). Inoltre, c'è stata una leggera preferenza per la distribuzione che somigliava alla Svezia rispetto a quella equa, suggerendo che gli americani preferiscono alcune disparità alla perfetta parità, ma non al livello attualmente presente negli Stati Uniti.

Costruire un' America migliore

Mentre le scelte fra i tre grafici fanno luce in merito alle preferenze relative alla distribuzione della ricchezza in astratto, abbiamo voluto esplorare le specifiche convinzioni degli intervistati circa la loro società. Nella successiva ricerca, abbiamo quindi rimosso "il velo di ignoranza" di Rawls e valutato sia le stime degli intervistati sull'effettiva distribuzione della ricchezza sia le loro richieste per la distribuzione ideale della ricchezza negli Stati Uniti. Per le loro stime sull'effettiva distribuzione, abbiamo chiesto agli intervistati di indicare quale percentuale di ricchezza hanno pensato fosse posseduta da ciascuno dei cinque quinti negli Stati Uniti, in ordine a partire dal primo 20% e terminando con l'ultimo 20%. Per la loro distribuzione ideale, abbiamo chiesto loro di indicare quale percentuale della ricchezza hanno pensato che idealmente dovrebbe tenere ogni quinto, nuovamente a partire dal primo 20% e terminando con l'ultimo 20%.

Per aiutarli in questo compito, abbiamo fornito loro i due esempi più estremi, insegnando loro ad assegnare il 20% della ricchezza a ogni quinto se pensavano che ogni quinto dovesse avere lo stesso livello di ricchezza o ad assegnare il 100% della ricchezza a un quinto se pensavano che esso dovesse detenere tutta la ricchezza. La figura 2 mostra l'effettiva distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti al momento dell'indagine, una stima globale degli intervistati su tale distribuzione e infine la distribuzione ideale degli intervistati. Questi risultati evidenziano due messaggi chiari. In primo luogo, gli intervistati sottovalutano enormemente l'effettivo livello di disparità di ricchezza negli Stati Uniti, credendo che il quinto più ricco detenga circa il 59% della ricchezza quando il valore effettivo è più vicino all'84%. Più interessante, gli intervistati hanno indicato una distribuzione della ricchezza ideale che era molto più equa rispetto anche alle loro stime erroneamente basse della distribuzione effettiva, segno di un desiderio per il quinto superiore di possedere solo il 32% della ricchezza. Questi desideri per una distribuzione più equa della ricchezza hanno assunto la forma del movimento di denaro dal quinto superiore agli ultimi tre quinti, lasciando il secondo quintile invariato, dimostrando una maggiore preoccupazione per i meno fortunati rispetto ai più fortunati (Charness & Rabin, 2002).

Dopo abbiamo esaminato le caratteristiche demografiche dei nostri intervistati autori di queste stime. La figura 3 mostra che queste stime sono ripartite in tre livelli di reddito, se gli intervistati hanno votato per W. di George Bush (repubblicano) o John Kerry (democratico) come Presidente degli Stati Uniti nel 2004 e secondo il sesso. I maschi, gli elettori di Bush, e gli individui più ricchi hanno stimato che la distribuzione della ricchezza è stata relativamente più equa rispetto alle donne, agli elettori di Kerry e ai più poveri; per le stime dell'ideale distribuzione, d'altro canto, questi stessi gruppi (i maschi, gli elettori di Bush e i ricchi) desideravano una distribuzione relativamente più iniqua rispetto alle loro controparti.

Nonostante queste differenze (un po' prevedibili), ciò che colpisce di più nella figura 3 è la dimostrazione di un maggior consenso piuttosto che di un disaccordo tra questi diversi gruppi demografici. Tutti i gruppi – anche gli intervistati più ricchi – desideravano una più equa distribuzione della ricchezza rispetto a ciò che si stima essere l'attuale livello negli Stati Uniti, ma tutti i gruppi desideravano anche qualche disparità – anche i più poveri intervistati. Inoltre, tutti i gruppi hanno convenuto che tale ridistribuzione dovrebbe assumere la forma di movimento di ricchezza dal quinto superiore agli ultimi tre quinti. In breve, mentre gli americani tendono ad essere relativamente più favorevoli alla disuguaglianza economica rispetto ai membri di altri paesi (Osberg e Smeeding, 2006), l' accordo degli americani sulla distribuzione ideale della ricchezza all'interno degli Stati Uniti sembra mettere in ombra i loro disaccordi in base al sesso, all'orientamento politico e al reddito. Nel complesso, questi risultati indicano due messaggi primari. In primo luogo, un ampio campione di americani rappresentativo a livello nazionale sembra che preferisca vivere in un paese più simile alla Svezia. Gli americani poi ipotizzano distribuzioni ideali che sono molto più eque di quanto stimavano fossero negli Stati Uniti – stime che a loro volta erano molto più eque dell'effettivo livello di disuguaglianza. In secondo luogo, tra i gruppi di diverse parti dello scenario politico c'era molto più consenso che disaccordo su questo desiderio per una più equa distribuzione della ricchezza e ciò suggeisce che gli americani possono possedere uno standard comunemente ritenuto "normativo" per la distribuzione della ricchezza, nonostante le molte divergenze sulle politiche che riguardano tale distribuzione, quali la tassazione ed il benessere (Kluegel & Smith, 1986). Ci siamo affrettati ad aggiungere, tuttavia, che il nostro uso di "normativo" è in senso descrittivo – e riflette il fatto che gli americani sono d'accordo sulla distribuzione ideale – ma non necessariamente in un senso prescrittivo. Mentre alcune evidenze suggeriscono che la disuguaglianza economica è associata con la diminuzione del benessere (Napier & Jost, 2008), la creazione di una società con il preciso livello di disuguaglianza che i nostri intervistati segnalano come ideale non può essere ottimale da una prospettiva economica o politica pubblica (Krueger, 2004).

Dato l'accordo tra i diversi gruppi sul divario tra un'ideale distribuzione della ricchezza e l'effettivo livello di disparità, perché più americani – in particolare quelli con reddito basso, non sono a favore di una maggiore ridistribuzione della ricchezza? In primo luogo, i nostri risultati dimostrano che gli americani sembrano sottovalutare drasticamente il livello corrente di disparità, facendo supporre che possono semplicemente essere inconsapevoli del divario. In secondo luogo, proprio come le persone hanno convinzioni errate circa l'effettivo livello di disparità di ricchezza, essi possono anche avere convinzioni eccessivamente ottimistiche circa le opportunità di mobilità sociale negli Stati Uniti (Benabou & Ok, 2001; Charles & Hurst, 2003; Keister, 2005), opinioni, che a loro volta possono essere di supporto a distribuzioni disuguali di ricchezza. In terzo luogo, a dispetto del fatto che i conservatori e i liberali nel nostro campione sono d'accordo che l'attuale livello di disuguaglianza è lungi dall'essere ideale, i pubblici disaccordi sulle cause di tale disuguaglianza possono abbattere questo consenso (Alesina & Angeletos, 2005; Piketty, 1995). Infine e più in generale, gli americani mostrano un vasta divergenza nei loro atteggiamenti verso la disuguaglianza economica e nei loro interessi e preferenze politiche pubbliche (Bartels, 2005; Fong, 2001), ciò suggerisce che anche data una maggiore consapevolezza del divario tra la distribuzione ideale e reale della ricchezza, rimane improbabile che gli americani possano essere favorevoli a politiche che potrebbero ridurre questo divario.

NOTE

[1] Per condurre questa indagine abbiamo utilizzato l'organizzazione di indagine internazionale su campionamento Survey (surveysampling.com). Di conseguenza, non abbiamo accesso alle risposte.

[2] Abbiamo usato il reddito della Svezia piuttosto che la distribuzione della ricchezza, perché ha fornito un contrasto più chiaro rispetto alle distribuzioni della ricchezza e all'equità degli Stati Uniti; pure più equa della distribuzione della ricchezza degli Stati Uniti, la distribuzione della ricchezza della Svezia è ancora estremamente superiore.

Referenze

Alesina, A. & Angeletos, G.M. (2005). Fairness and redistribution. American Economic Review, 95, 960-980.
Bartels, L.M. (2005). Homer gets a tax cut: Inequality and public policy in the American mind. Perspectives on Politics, 3, 15-31.
Benabou, R. & Ok, E.A. (2001). Social mobility and the demand for redistribution: The POUM hypothesis. Quarterly Journal of Economics, 116, 447-487.
Charles, K.K. & Hurst, E. (2003). The correlation of wealth across generations. Journal of Political Economy, 111, 1155-1182.
Charness, G. & Rabin, M. (2002). Understanding social preferences with simple tests.
Quarterly Journal of Economics, 117, 817-869.
Davies, J.B., Sandstrom, S., Shorrocks, A., & Wolff, E.N. (2009). The global pattern of household wealth. Journal of International Development, 21, 1111–1124.
Fong, C. (2001). Social preferences, self-interest, and the demand for redistribution. Journal of Public Economics, 82, 225-246.
Keister, L.A. (2000). Wealth in America. Cambridge, UK: Cambridge University Press.
Keister, L.A. (2005). Getting Rich: America’s New Rich and How They Got That Way. Cambridge, UK: Cambridge University Press.
Kluegel, J.R. & Smith, E.R. (1986). Beliefs about Inequality: Americans’ Views of What is and What Ought to Be. New York: Aldine de Gruyter.
Krueger, A.B. (2004). Inequality, too much of a good thing. In J.J. Heckman & A.B.
Krueger (Eds.), Inequality in American: What Role for Human Capital Policies (pp.1-75).Cambridge, MA: MIT Press.
McCarty, N., Poole, K.T., & Rosenthal, H. (2006). Polarized America: The dance of ideology and unequal riches. Cambridge, MA: MIT Press.
Napier, J.L. & Jost, J.T. (2008). Why are conservatives happier than liberals? Psychological Science, 19, 565-572.
Osberg, L. & Smeeding, T. (2006). 'Fair' inequality? Attitudes to pay differentials: The United States in comparative perspective. American Sociological Review, 71, 450- 473.
Piketty, T. (1995). Social mobility and redistributive politics. Quarterly Journal of Economics, 110, 551-584.
Rawls, J. (1971). A Theory of Justice. Cambridge, MA: Harvard University Press.
Wolff, E.N. (2002). Top Heavy: The Increasing Inequality of Wealth in American and What Can Be Done about It. New York, NY: The New Press.

fonte: http://www.comedonchisciotte.org

domenica 27 febbraio 2011

Il patriota padano Castelli con la casa dell’ente Enasarco a Roma


Case di enti. Non ci sono solo quelle del Trivulzio a Milano. C’è pure Roma. Ecco, tanto per esemplificare, in via dei Quattro Venti a Roma in un appartamento Enasarco di 96 metri quadri, a un prezzo d’affitto stracciato, si era piazzato tempo fa uno di quei signori col fazzolettino verde brillante nel taschino che si vedono la sera in tv per il fatto che io conduttori tv li considerano del pollaio. E così questi signori col fazzolettino verde nel taschino sono soliti  pontificare su tante, troppe questioni. Compresa la casa.
Ora l’ingegnere Roberto Castelli, ecco l’affittuario Enasarco di via dei Quattro Venti, uomo dal taschino verde, non mi risulta che sia né romano né un rappresentante di commercio di quell’ente. Come dice il suo Borghezio dovrebbe essere un “patriota padano” (magari neanche lì poi vanno bene le cose visto il risultato delle ultime elezioni a Lecco, dove il candidato Castelli è stato trombato).
Detto questo, perché mai il patriota Castelli – lo stesso che è andato a passare patriottiche vacanze estive con tutta la famiglia in una struttura del ministero di giustizia a Is Arenas – ha goduto del privilegio di avere a Roma una bella casetta a costo irrisorio? Forse perché all’Enasarco avevano apprezzato il suo fazzolettino verde?
Il seguito su Brogi.info  (che ringrazio per la segnalazione).

sabato 26 febbraio 2011

La CGIL comunica la chiusura di un'azienda storica di Città di Castello: in 13 senza lavoro


Il giorno 24 febbraio 2011 presso la Camera del Lavoro Cgil di Città di Castello si è svolta una riunione tra i 13 dipendenti della Azienda Cartolibraria Tiberina srl di Città di Castello, Marida Fiorucci dell’Ufficio vertenze legali della Cgil, Mauro Moriconi della Slc Cgil e Alessandro Piergentili della Cgil Alta Umbria, per esaminare la situazione determinatasi in seguito alle decisione del giudice e del titolare e per intraprendere le necessarie iniziative di tutela.
L’azienda infatti ha cessato l’attività, il giorno 04 febbraio, per effetto di procedura fallimentare intentata da diversi soggetti. La decisione del Giudice, che ha determinato il blocco dell’attività produttiva e la nomina dei curatori, ha aggravato la situazione di disagio degli stessi dipendenti che, prevalentemente donne, non avevano ricevuto le ultime retribuzioni.
La procedura fallimentare ha determinato la chiusura di una azienda storica della realtà dell’Alto Tevere per quanto riguarda il settore, con un ulteriore colpo al territorio ed alla occupazione. Gli stessi dipendenti, essendo una realtà produttiva sotto i 15 addetti non hanno diritto agli ammortizzatori sociali, previsti per le aziende industriali, rimanendo ulteriormente penalizzati.
Nell’incontro si è deciso, anche in seguito ai contatti ed alle verifiche tecniche già avviati con la Amministrazione Comunale di Città di Castello, di richiedere l’attivazione del fondo di solidarietà per dare un sostegno economico immediato agli stessi dipendenti.
Di chiedere alla Regione dell’Umbria la attivazione degli strumenti di ammortizzatori sociali in deroga al fine di permettere di affrontare la situazione drammatica che si è presentata con uno strumento di sostegno.
Di attivare tutte le iniziative di tutela delle mancate retribuzioni e del TFR (diversi dipendenti hanno una anzianità di circa 30 anni) per affrontare gli adempimenti giuridici e burocratici previsti dalla e procedure concorsuali.
E’ necessario uno sforzo eccezionale per dare risposte immediate e concrete.
Al di là delle cause specifiche che hanno determinato la chiusura di questa azienda, tale atto rappresenta un colpo pesante all’economia del territorio ed alle persone che si sono viste nel giro di pochi giorni chiudere l’azienda e perdere il lavoro, con un grave danno sociale, umano ed economico.
Vengono purtroppo riconfermate le preoccupazioni già ampiamente denunciate dalla Cgil sulla situazione di crisi che sta colpendo il nostro Paese e sulle peculiarità del settore grafico-cartaio-cartotecnico di Città di Castello che sta subendo processi di crisi pesanti per il sistema produttivo e per le persone. E' sempre più necessaria una reazione sia locale che nazionale per affrontare la crisi che sta dilaniando il tessuto sociale ed economico del Paese e del territorio e per dare prospettiva ai lavoratori ed alle lavoratrici.
Alessandro Piergentili - CGIL alta Umbria

ADDIO ENERGIE ALTERNATIVE O ADDIO SPECULAZIONI?

DOPO l'eolico, il fotovoltaico. Il nome della seconda vittima della guerra alle rinnovabili è nel decreto che il governo si preparerebbe ad approvare all'inizio della prossima settimana. "Con un tetto di impianti incentivabili fino al 2020 vicino alla soglia che si raggiungerà nell'arco di un anno, il fotovoltaico è destinato a chiudere i battenti", accusa Massimo Sapienza, presidente di Asso Energie Future. "Sarebbe il secondo fallimento programmato dopo quello che ha messo in ginocchio l'industria e la ricerca italiane negli anni Ottanta. Dovremmo mandare a spasso 120 mila persone che lavorano, direttamente o indirettamente nel settore".

Il decreto legislativo in questione sarà discusso martedì dal pre Consiglio dei ministri e votato con ogni probabilità giovedì prossimo. Secondo le bozze in circolazione, prevederebbe un taglio del 30 per cento degli incentivi, le aste al ribasso per gli impianti oltre i 5 megawatt (un meccanismo considerato discutibile perché diminuisce le garanzie contro le infiltrazioni del malaffare), il divieto di fotovoltaico a terra per impianti superiori a 1 megawatt.

L'allarme è condiviso da tutte le associazioni delle rinnovabili da Aper a Assosolare. "Nel 2010 in Europa il fotovoltaico ha avuto la crescita più alta tra le fonti rinnovabili", ricorda Giuseppe Moro, del direttivo di Assosolare. "Tagliare le gambe all'industria del sole e a quella del vento vuol dire bloccare la crescita tecnologica del paese in un settore strategico". Il governo sembra intenzionato ad andare avanti per ragioni di cassa, come ha precisato Paolo Romani, il ministro dello Sviluppo economico, dichiarando: "Dal 2000 al 2010 i cittadini hanno pagato in bolletta 20 miliardi per aggiungere un 4 per cento di energia rinnovabile".

"Numeri che portano fuori strada", obietta il senatore Pd Francesco Ferrante. "Negli ultimi 20 anni più di 40 miliardi di euro sono stati drenati dalle bollette e consegnati ai petrolieri per favorire le cosiddette assimilabili, una categoria di false rinnovabili fatte con gli scarti di raffinazione del petrolio. Mentre si vuole chiudere l'industria del sole e del vento - mandando a casa un numero di lavoratori più di 20 volte superiore ai dipendenti Fiat di Mirafiori - si versa un miliardo di euro per rifinanziare impianti già incentivati e oggetto di un semplice lifting funzionale".

Non è detto comunque che il testo non subisca qualche correttivo nelle prossime ore. In questa direzione vanno gli sforzi del ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo che sta mettendo il suo peso nel braccio di ferro che ha per posta il futuro delle rinnovabili. Il ragionamento che fanno al ministero di via Cristoforo Colombo è semplice. Il tetto degli 8 mila megawatt come limite degli incentivi per il fotovoltaico era stato fissato in un periodo in cui sembrava lontanissimo.

Ma il settore ha galoppato così veloce in tutto il mondo da aver bruciato le tappe. Restare bloccati fino al 2020 a quota 8 mila megawatt, la metà del fotovoltaico già installato in Germania, significherebbe rendere molto difficile, se non impossibile, il rispetto degli impegni assunti dal governo in sede comunitaria per arrivare al 17 per cento di energia rinnovabili al 2020.

La proposta che il ministero dell'Ambiente porterà al Consiglio dei ministri è: abbassare gli incentivi con gradualità (anche perché i costi di produzione diminuiscono per l'aumento di efficienza e dei volumi di produzione) e alzare il tetto di impianti incentivabili per dare spazio di crescita alle rinnovabili.

LA REPUBBLICA

venerdì 25 febbraio 2011

Anno d'oro per Berlusconi, incassati 118 milioni di dividendi



La crisi economica non tocca la famiglia Berlusconi. Almeno questo è quello che si può ricavare, guardando i risultati delle società legate al premier. Nel 2010 Silvio Berlusconi ha incassato, dalle sue società, ben 118 milioni; Marina Berlusconi - proprietaria della Holding Italiana Quarta - incassa 12 milioni; Piersilvio - a capo della Holding Italiana Quinta - si deve accontentare di 5 milioni; Barbara, Eleonora e Luigi - titolari della Holding Italiana Quattordicesima - hanno avuto 10 milioni a testa. 
Restano alte le riserve liquide delle società: le Holding Prima, Seconda, Terza e Ottava, in totale, hanno una riserva di 544 milioni, a cui può accedere il geometra Spinelli per pagare le decine di escort che ferquentano regolarmente Villa San Martino ad Arcore. Per Marina sono conservati invece 90 milioni; 213 per Piersilvio. I tre figli di Veronica Lario, invece, possono contare su 339 milioni per qualsiasi evenienza. 
Insomma, non credo che avranno problemi di pensione, in futuro.

Ma questa  notizia ve l'ha data il TG1? E il TG2? E il TG3? E il TG5? Ah...

Il PD di San Giustino si mobilita il 26/27 Febbraio ed il 2 Marzo. Prevista la presenza di Walter Verini


Dopo l’assemblea di martedì scorso 22 febbraio,tenutasi a Selci con una notevole partecipazione, nella quale si è discusso di “Territorio” (ed in particolare della legge regionale 13/2010) con un dibattito quanto mai ampio ed approfondito, il Partito Democratico di San Giustino si mobilita per parlare di un’altra possibile Italia, che non è quella di oggi con questo governo inerme ed incapace, ma che può essere quella di domani con le proposte concrete ed efficaci del Partito Democratico.
Il Partito Democratico di San Giustino per far conoscere tali proposte e per raccogliere le firme per mandare a casa questo governo che non governa, nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Berlusconi Dimettiti”, ha programmato una vera e propria mobilitazione popolare con gazebo e volantinaggio: saremo presenti sabato 26 (dalle 16 alle 19) a Celalba ed a Selci Lama, domenica 27 in Piazza del Municipio a San Giustino con la gradita presenza dell’On. Walter Verini e mercoledì 2 marzo (dalle 20) presso il Palasport di San Giustino.

'Ecco come costruivamo le armi di Gheddafi'

Luigi Consonni, ex operaio Breda Fucine, denuncia le implicazioni dell'industria italiana nei massacri libici






Cinque ex operai della Breda Fucine di Sesto San Giovanni hanno spedito una lettera ai giornali nella quale denunciano le "lacrime di coccodrillo versate da politici e industriali" corresponsabili della carneficina libica.
Anche la loro fabbrica, partecipata dallo Stato italiano, "ha fornito armi, bombe, cannoni e mitragliatrici per le navi e gli aerei (e le contraeree) che oggi sparano sugli insorti". L'ha fatto almeno dagli anni Ottanta, ma forse anche da prima.
PeaceReporter ha contattato Luigi Consonni, primo firmatario di quella lettera.


Su quali basi ritenete che la Breda abbia fornito armi a Gheddafi?


Non abbiamo prove, ma riteniamo di aver prodotto armi per Gheddafi dalla metà degli anni Ottanta a quando la Breda Fucine è stata messa in liquidazione (1992, poi venduta alla Metalcam del gruppo Tassara nel 1996, ndr). Le prove mancano perché noi facevamo gli sgrossatori per Breda Meccanica Bresciana, per Agusta e soprattutto per Oto Melara.


Cosa significa "sgrossatori"?


Breda Fucine aveva una grossa forgia che da grandi pezzi d'acciaio estraeva cannoni. La trave andava nel forno, poi era tirata fuori incandescente e infine messa sotto una pressa da cui usciva a forma di cannone. Questo era poi mandato al trattamento termico per dargli le caratteristiche tecniche necessarie alla lavorazione. Infine in torneria, dove veniva fatta la sgrossatura dell'involucro esterno e il foro interno del cannone. A questo punto, dalla Breda Fucine passava alla Oto Melara che lo rifiniva. Per cui il pezzo definitivo era molto diverso da quello che lavoravamo noi, che comunque era indubbiamente un cannone.


Producevate altre armi?


Noi le chiamavamo "le cannette". Forgiavamo dei piccoli pezzi d'acciaio che diventavano dei tubi lunghi - un metro, un metro e mezzo - e sottili. Erano le canne delle mitragliatrici antiaeree e sicuramente anche di quelle che venivano messe sugli aerei e sugli elicotteri dell'Agusta. La Breda Meccanica Bresciana rifiniva questi pezzi e poi li passava all'Agusta.
Per avere le prove della vendita a Gheddafi bisognerebbe passare per Breda Bresciana, Oto Melara e Agusta.
Altri operai ci hanno raccontato che spesso si faceva una triangolazione con la Germania per evitare che emergesse il rapporto con Gheddafi, che in quel momento - siamo negli anni Ottanta - era il "mostro" additato da Reagan. Si vendeva alla Germania - per cui noi producevamo anche i cannoni dei carri armati Leopard - che a sua volta vendeva a Gheddafi.


Nel 1991 c'è la prima guerra del Golfo, la prima a cui partecipa anche l'Italia, e lì comincia la vostra presa di coscienza.


Ci fu una sollevazione, soprattutto tra gli operai più giovani. Aderimmo alla manifestazione spontanea che ci fu a Milano, eravamo almeno ventimila. Chiedemmo anche ai sindacati di fare una raccolta di firme per sensibilizzare sulla produzione di armi. Di fatto questo tema si innestò su una presa di coscienza preesistente, visto che la Breda non andava bene da tempo e c'era già un comitato di lotta a cui aderivano molti operai e su cui convergevano lavoratori che venivano da altre fabbriche. Avevamo anche un giornale di fabbrica.
Poi la Breda fu scorporata in tre pezzi.


Gabriele Battaglia
Fonte: Peace Reporter

giovedì 24 febbraio 2011

Una sterminata collezione di figurine di palta

C'è il ministro Zed degli esteri (vedere foto) in un governo di centrodestra che, praticamente, non conta nulla e forse non vale nulla.
La circostanza ci è stata ricordata di recente da uno dei rapporti diplomatici diffusi da Wikileaks, nel quale l’allora ambasciatore Ronald Spogli, commentava laconicamente l’influenza e la rilevanza del ministro degli esteri nell’elaborazione della politica estera del paese. Sul rapporto si legge che il capo del governo “rifiuta costantemente i consigli del suo ministro degli esteri, sempre più irrilevante, demoralizzato e privo di risorse”.
Dopo alcuni anni di militanza politica nel partito socialista, mette il piede in tutti i governi dal 1994 a oggi, esclusi i due di centrosinistra. 
Fa il ministro della funzione pubblica e il ministro degli affari regionali. 
Assume l'incarico di Ministro degli Esteri dopo dieci mesi di interim del presidente del consiglio, è il 2001 proprio nel periodo più caldo e cruciale della politica estera mondiale dalla fine della guerra fredda: l’11 settembre, la guerra in Afghanistan, il terrorismo internazionale, l’imminente invasione dell’Iraq. 
Dell'opera del nostro ministro Zed di quegli anni non ci si ricorda nulla. Anzi, una cosa sì: una legge. Che veniva chiamata, appunto come lui. E non ha niente a che fare con la politica estera, trattandosi di una legislazione sul conflitto di interessi – tiepidissima e molto criticata dalle istituzioni europee.
Nel 2004 il governo è nei pasticci: gli alleati sono nervosi e fanno saltare due poltrone, una è proprio quella del nostro innocuo Zed. Al suo posto subentra un ex fascista e futuro traditore, di nome Gianfranco.
Dopo qualche anno passato grigiamente a fare il commissario europeo, nel 2008 viene richiamato a prendere il posto di ministro degli esteri. Il tutto con la consueta irrilevanza. Nell’estate del 2008 la Russia invade la Georgia: muoiono 2000 persone in cinque giorni, nel mondo si parla di una nuova guerra fredda, le diplomazie internazionali lavorano freneticamente per fermare il conflitto, i ministri degli esteri europei si riuniscono d’urgenza. Il ministro Zed è in vacanza alle Maldive e ci rimane: alle riunioni manda il suo vice.
Meno di sei mesi dopo, Israele comincia l’operazione Piombo Fuso: invade e bombarda la Striscia di Gaza, accusando Hamas di aver rotto la tregua con i razzi Qassam lanciati nel sud di Israele. Anche stavolta si mobilitano le diplomazie di tutto il mondo. Zed è di nuovo in vacanza, stavolta a sciare. Nessuna riunione, nessun vertice, nessuna missione. Quando il Tg1 va per intervistarlo, lui si fa riprendere dentro uno chalet, in tuta da neve e col naso unto di crema solare. Parliamo delle due crisi internazionali più gravi degli ultimi due anni: passate entrambe in vacanza.
Nel maggio 2010, Zed lasciò di sasso la diplomazia Europea annunciando che da lì a pochi giorni avrebbe visitato l’Iran: sarebbe stato il funzionario Europeo più elevato di grado a visitare il a paese nei 4 precedenti (ossia dall’elezione di Ahmadinejad). Il Finacial Times sottolineò lo sconcerto delle cancellerie europee, visto che si trattava di una mossa non concordata. Ovviamente Zed fece spallucce e confermò il viaggio. Ma il giorno prima dell’incontro il governo iraniano annunciò che l’indomani a Semnan, sede prevista dell’incontro, sarebbe stato testato un nuovo missile a lunga gittata. Solo a quel punto il prode Zed decise di annullare il viaggio. Fino a settembre 2010 quando i libici spararono a un pescherecco italiano cone le motovedette che Zed aveva donato ed infatti disse: “Hanno sparato in aria”.
E' difficile fare il ministro degli esteri per quattro anni e mezzo, senza metter mano a nessuna iniziativa politica degna di questo nome, nemmeno uno come Baffino è riuscito a fare tanto...


In compenso si potrebbe scrivere un libro con le sue dichiarazioni, le sue battute, meglio se tronfie, roboanti e inutili. Per restare su quelle recenti, un anno fa disse di considerare “suggestiva” l’ipotesi di mettere un crocifisso nella bandiera italiana. A maggio se la prese con Amnesty International, definendo “indegne” le accuse della ong riguardo le espulsioni degli immigrati. Due mesi fa ha detto all’Osservatore Romano che l’ateismo è un “fenomeno perverso” che “minaccia la società al pari dell’estremismo”. Mentre le diplomazie di tutto il mondo affrontavano la grana Wikileaks tentando di minimizzare, di mostrarsi solidi, tranquilli e per nulla indeboliti, Zed strepitava: prima parlava di «11 settembre della diplomazia» e poi, dopo che il suo capo aveva detto invece di essersi semplicemente fatto una risata, diceva che Assange «vuole distruggere il mondo».


Cosa si è costretti a fare, per farsi notare un po’?


Appoggiare un tiranno sanguinario fino all'ora della sua "giusta" capitolazione?


Il ministro Zed si frega le mani per
la gioia d'essere al fianco del famoso
colonnello libico Gheddafi


Ispirato a : http://www.ilpost.it/2010/12/05/frattini-ministro-esteri/



Roma: la città è ferma

Il patto della Pajata fra Bossi (Lega Nord per l'Indipendenza della Padania)
e Gianni Alemanno (Popolo della Libertà - per Silvio Berlusconi)
Il signor Alemanno Gianni ha onorato San Giustino di una sua fugace, ma significativa visita in occasione delle ultime elezioni amministrative. In quella occasione oltre a fornire spunti per il voto in favore della locale lista di Centrodestra, ebbe modo di mostrare il suo "bon ton" insultando tutti coloro che per anni avevano votato a sinistra.
Stando alle ultime cronache, però, anche nella città di Roma, il sindaco sembra in difficoltà.


I parlamentari romani del Partito democratico hanno incontrato i giornalisti nella Sala Stampa della Camera dei Deputati per denunciare l’inadeguatezza del Sindaco di Roma Gianni Alemanno, che ormai rivela ogni giorno di più la sua incapacità di guidare la Capitale d’Italia.
Più di un'ora servita per illustrare una ad una le bugie sui progetti presentati da Alemanno durante la due giorni degli Stati Generali della città. Anche il PD di Roma ha organizzato una conferenza stampa, per integrare le tematiche nazionali di Roma capitale con quelle più specifiche dei territori dei Municipi, che tra l’altro non sono stati invitati alla kermesse organizzata da Alemanno al Palazzo dei Congressi all’Eur. Anzi, i Presidenti di Municipio che ieri hanno protestato davanti la sede degli Stati Generali, con dei volantini che denunciavano proprio il fatto di non essere stati coinvolti, sono stati umiliati dalle forze dell’ordine che li hanno voluti identificare uno ad uno.


Ciò che hanno rilevato tutti i parlamentari del Pd è che la kermesse di Alemanno, è risultata “finta, vuota, distaccata dal contingente, lontana dalla realtà di Roma” e per questo “ispira scarsa credibilità di intenti e di risultati”. Questo perchè come ha ben illustrato Roberto Morassut: “sono stati presentati addirittura 220 progetti per Roma e tutto a metà mandato, nessuno quindi non saranno neanche avviati, visti i tempi di realizzazione.


Inoltre Roma risulta da tre anni a questa parte una città che retrocede, più provinciale, e la vita dei romani è più difficile, c’è più povertà anche culturale, più insicurezza.


Lo stesso consenso nei confronti del Sindaco è precipitato paurosamente arrivando al 36% e questo a causa dell’arretratezza economica di Roma e delle qualità delle opere realizzate, o meglio non realizzate. Molti dei 220 progetti – ha spiegato Morassut – sono stati ripresi da quelli avviati dalle amministrazioni precedenti di centro sinistra, ma nel frattempo definanzializzati, quindi sarà impossibile realizzarli”.


Ecco solo alcuni esempi di progetti congelati ed irrealizzabili, vantati alla fantomatica Kermesse capitolina.


• Il progetto del Tridente, presentato come una novità da Alemanno, era invece un progetto di Veltroni del 2006 che doveva compiersi nel 2011. Ed i 10 milioni di euro che erano già stati stanziati dalla Giunta precedente, oggi sono spariti. La pedonalizzazione dell’area, prevista inizialmente non avverrà, visto che da 3 anni sono fermi gli scavi archeologici a piazza Augusto Imperatore.


• Il Progetto di Renzio Piano per le aree verdi del Flaminio è stato definanziato


• Il Sottopasso dell’Ara Pacis, per il quale la giunta di centrosinistra aveva già stanziato 20 milioni di euro, non è più realizzabile, per motivi strutturali ed economici.


• Per il lungomare di Ostia, la giunta di Alemanno prevede di snaturare completamente la costa, creando una sorta di Rimini, ma senza servizi di sostegno.


• Le opere pubbliche per migliorare la vivibilità della periferia, sono ferme, compresi i sottopassi per Acilia, Torre Vecchia bis, Magliana e il recupero urbano di San Basilio. Per non parlare del Campus de La sapienza che doveva realizzarsi a Pietralata.


Morassut, infine ha criticato anche la “metodologia dell’approccio della giunta di centrodestra che sta tornando ad un sistema fantasma di rapporti diretti abbandonando la via più trasparente delle gare di appalto”.
“Ma la cosa più scandalosa che contraddistingue la attuale amministrazione di Roma –ha detto il deputato Pd – riguarda il Piano Regolatore. Il Comune di Roma ha vinto lo scorso luglio un ricorso, presentato ovviamente dalla giunta precedente su alcune proprietà immobiliari e adesso il comune stesso ha affidato proprio a coloro che avevano perso la battaglia per le proprietà, la revisione delle norme tecniche del progetto. È uno scandalo”.


Il deputato del Pd Luigi Zanda ha voluto porre una osservazioni politica riguardo il governo di Roma. “Ovvero la totale assenza di una etica politica nella Giunta, che si è caratterizzata da ultimo con la manipolazione ad opera del vicesindaco e senatore del Pdl Cutrufo che ha inserito nel Milleproroghe una norma per aumentare gli Assessori al Comune di Roma. Pura immoralità politica, sulla quale è intervenuto anche il capo dello Stato, dichiarando il decreto Milleproroghe incostituzionale”.


Il democratico deputato Marco Causi, ex assessore al Bilancio al Comune di Roma, ha chiesto spiegazione riguardo le voci che girano secondo le quali l’onorario del nuovo Commissario straordinario di Roma si aggiri intorno al milione di euro. “Sarebbe uno scandalo politico –ha detto –vista la necessità di fondi che Roma richiede, ed aspetto di essere smentito”.


Ha parlato di un “crollo di Roma mai visto negli ultimi 15 anni, dal punto di vista del sociale”, Ileana Argentin. “Anziani, poveri, disabili, non si cerca più di integrali nelle famiglie, ma vengono quantificati dal punto vista monetario e trattati come voucher da emettere, anzicchè come persone. In più i fondi alle Cooperative sociali che prima fornivano servizio di assistenza nelle scuole ed associazioni, sono stati tagliati. Alemanno non riceve nessuno che non sia ricco, potente e forte – ha aggiunto la Argentin –mentre un Sindaco, dal punto di vista etico ha il dovere all’accoglienza e all’ascolto dei suoi cittadini. Se non si appoggiasse alla provincia che funzione, sarebbe già completamente crollato”.


Anche il tema della sicurezza, tanto strumentalizzato da Alemanno in campagna elettorale si è rivelato vuoto e senza un progetto reale, come è emerso dagli ultimi accadimenti di cronaca. Nel corso della conferenza stampa, la deputata Marianna Madia, ha notato il parallelo con la politica nazionale del governo e quella di Roma in questo senso. “La sicurezza e la violenza sulle donne sono aumentate ed oggi ci stiamo accorgendo della disonestà della campagna elettorale di Alemanno”.


Michele Meta, deputato Pd della Commissione trasporti, ha parlato delle criticità che riguardano l’aeroporto di Fiumicino, sul quale bisognerebbe investire, come fanno tutti i Paesi europei con gli aeroporti delle loro capitali. “Invece per Fiumicino nessun investimento –ha detto Meta – ed anzi si vogliono far gravare le spese sugli utenti, con l’aumento dei biglietti delle tratte aeree”.


Ma ciò che è stato denunciato di più grave da tutti i deputati Pd, a margine della Conferenza stampa, è stato la totale assenza, durante gli Stati Generali di Roma, di qualsiasi rifermento alla situazione gravissima e difficilissima dei profughi (se ne stimano 300000 solo dalla Libia) che approderanno a Lampedusa. E’ una emergenza economica e sociale che avrà un impatto nell’intera società e soprattutto su Roma, che dovrà accoglierne probabilmente un buon 40%. Eppure ne Alemanno né Berlusconi, presente alla Kermesse, ne hanno parlato e questo a dimostrazione della profonda distanza che divide questi amministratori dai bisogni reali della stessa società che sono chiamati a governare. Amministratori stanchi ed incapaci, ma che non vogliono mollare il potere, ormai superati dalla loro stessa inadeguatezza rispetto al ruolo che ricoprono.


Fonte: http://beta.partitodemocratico.it/doc/203831/fb/stati-generali-di-roma-flop-di-alemanno.htm

mercoledì 23 febbraio 2011

PERCHE' L'ITALIA NON SI RIVOLTA ?



Perché non ci ribelliamo? In Italia la disoccupazione giovanile è al 29%, la più alta d'Europa. Tutti noi genitori abbiamo il problema dei figli, quasi sempre laureati, che non trovano lavoro o che devono accettare ingaggi precari molto al di sotto del loro titolo di studio, senza nessuna prospettiva per il futuro (questo è stato uno degli elementi scatenanti della rivolta tunisina innescata da un ingegnere costretto a fare il venditore ambulante e, impeditagli anche la bancarella, si è dato fuoco).
Tutti gli scandali più recenti, dal "caso Mastella" in poi, ci dicono che la classe dirigente italiana, intesa come mixage di politici, amministratori pubblici, imprenditori, finanzieri, speculatori, esponenti dello star system, piazzano i propri figli, nipoti, generi, amici degli amici, in posti di lavoro ben remunerati e sicuri.


Del resto nemmeno un chirurgo, nel nostro Paese, può fare il chirurgo se non ha gli agganci giusti con questa o quella banda di potere. Perché il sistema clientelare di Mastella non è il "sistema Mastella" è il sistema dell'intera classe dirigente italiana. Se non altro Mastella ha lo spudorato coraggio e la spudorata onestà di non farne mistero.


I ceti popolari sono stati espulsi da Milano e mandati nell'hinterland, in "non luoghi" direbbe Biondillo, che hanno il nome di paesi ma non sono paesi, perché non hanno una piazza, una chiesa, un cinema, un luogo di aggregazione.


Le deportazione dei ceti popolari ha distrutto Milano, città interclassista dove nei quartieri del centro, Brera, Garibaldi, Pirelli abitava accanto al suo operaio, il primo, naturalmente, in un palazzo di Caccia Dominioni, il secondo in una casa di ringhiera. Questa interfecondazione dava alla città una straordinaria vivacità che è andata inesorabilmente perduta. Oggi una giovane coppia non può trovar casa a Milano, né in affitto né tantomeno in proprietà nemmeno con mutui che impegnino tre o quattro generazioni. Quando ci si lamenta che certe zone periferiche, come viale Padova, sono state occupate più o meno illegalmente dagli immigrati, si sbaglia perché se non altro hanno restituito un po' di vita, e in particolare una vita notturna a una città che non ne ha più se non in quei quattro o cinque bordelli di lusso, a tutti noti, che ogni tanto vengono chiusi per eccesso di escort e di droga. In questi posti senti uomini fra i quaranta e i sessanta fare discorsi di questo tipo: «Domani parto per New York, poi faccio un salto a Boston e ritorno in Italia via Tailandia dove mi fermerò una decina di giorni». Se per caso ti capita di parlargli e gli chiedi: «Scusi, lei che lavoro fa?», le risposte son vaghe. In genere si dicono finanzieri, intermediari, immobiliaristi.


Quando agli inizi degli anni '70 era già cominciata la deportazione dei milanesi verso l'hinterland, lo Iacp, Istituto Autonomo Case Popolari, non dava i suoi appartamenti alla povera gente, ma a politici, amministratori locali, giornalisti, in genere socialisti perché, prima del ribaltone della Lega, Milano, è stata governata da sindaci del Psi (Aniasi, Tognoli, Pilliteri, gli ultimi).


È ovvio che il centro di Milano, depauperato dei suoi ceti popolari, sia abitato oggi solo dai ricchi. Noi milanesi le case di piazza del Carmine, di via Moscova, di via della Spiga, di via Statuto possiamo solo sfiorarle e occhieggiarne i lussuosi androni. Meno ovvio è che il Pio Albergo Trivulzio, la Baggina come la chiamiamo noi, che ha accumulato un ingente patrimonio immobiliare, grazie a dei benefattori che intendevano, con ciò, non solo alleviare la condizione dei vecchi soli e invalidi ma anche che i loro quattrini avessero un utilizzo sociale, svenda questo patrimonio, con affitti o vendite "low cost" come si dice elegantemente oggi, a politici, amministratori, manager, immobiliaristi, speculatori, modelle, giornalisti, che di questo "aiutino" non avrebbero alcun bisogno, sottraendo risorse a chi il bisogno ce l'ha.


Io bazzico bar frequentati da impiegati, da piccoli manager, da lavoratori del terziario e un'antica piscina meneghina, la Canottieri Milano, dove si sono rifugiati, come in uno zoo per animali in estinzione, i cittadini di una Milano che fu, gente anziana. Tutti schiumano rabbia impotente di fronte a queste storie dei figli delle oligarchie del potere che hanno il posto assicurato o delle case del centro occupate "low cost" da queste stesse oligarchie o dai loro pargoli (nello scandalo del Pio Albergo Trivulzio c'è un nipote di Pilliteri, una figlia di Ligresti). Queste cose li colpiscono più dei truffoni di Berlusconi perché toccano direttamente la loro carne.
Schiumano rabbia ma non si ribellano. 
Perché? 
Le ragioni, secondo me, sono sostanzialmente due. In questo Paese il più pulito c'ha la rogna. Quasi tutti hanno delle magagne nascoste, magari veniali, ma ce l'hanno. Non che sia gente in partenza disonesta. Ma, com'è noto, la mela marcia scaccia quella buona. Se "così fan tutti", tanto vale che lo faccia anch'io. Così ragiona il cittadino. Per resistere a quel "tanto vale" ci vuole una corazza morale da santo o da martire o da masochista.
La seconda ragione sta in una mancanza di vitalità. Basterebbe una spallata di due giorni, come quella tunisina, una rivolta popolare disarmata ma violenta disposta a lasciare sul campo qualche morto per abbattere queste oligarchie, queste aristocrazie mascherate che, come i nobili di un tempo, si passano potere e privilegi di padre in figlio, senza nemmeno avere gli obblighi delle aristocrazie storiche. Ma in Tunisia l'età media è di 32 anni, da noi di 43. Siamo vecchi, siamo rassegnati, siamo disposti a farci tosare come pecore e comandare come asini al basto. Solo una crisi economica cupissima potrebbe spingere la popolazione a ribellarsi. Perché quando arriva la fame cessa il tempo delle chiacchiere e la parola passa alla violenza. La sacrosanta violenza popolare. Come abbiamo visto in Tunisia e in Egitto, come vediamo in Libia o in Bahrein (in culo al colossale Barnum del Circuito di Formula Uno, che è, in sé, uno schiaffo alla povera gente di quel mondo).


Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/22/perche-non-ci-ribelliamo-in-italia-la/93334/
22.02.2011

martedì 22 febbraio 2011

La special relationship imbarazza Frattini

Il rapporto privilegiato del premier con il Colonnello frena la Farnesina sulla condanna della repressione
Rivoluzione o guerra civile? L’imbarazzo del governo italiano di fronte alle notizie che arrivano dall’altra sponda del Mediterraneo si specchia nello slittamento semantico tra le due espressioni più utilizzate per definire la crisi libica.
Nelle stesse ore in cui il Pd lanciava un sit-in in piazza del Pantheon (per oggi alle 18.30) e i Radicali partecipavano a un presidio davanti a Montecitorio di sostegno alla rivoluzione democratica di Tripoli e di condanna delle complicità italiane, il ministro degli esteri Frattini parlava di «guerra civile », le stesse parole utilizzate minacciosamente poche ore prima in tv dal secondogenito di Gheddafi, Saif Al islam.
Una posizione che si è fatta più imbarazzante con il crescere della tensione in Libia e che strideva con la dura condanna della repressione espressa dall’Unione europea su cui anche la Farnesina si è dovuta allineare. E se poche ore prima a Bruxelles Frattini si era esposto a favore del regime «laico e anti-fondamentalista » di Gheddafi, l’opposizione insisteva perché il governo riferisse in aula su una posizione che un po’ a tutti era sembrato di sostanziale via libera al raìs. Solo in serata, dopo una giornata di silenzio, Berlusconi ha condannato la violenza sui civili («inaccettabile») e si è augurato che la violenza non denegerasse in guerra civile.
«L’atteggiamento di Frattini non è nuovo, va avanti già da più di un mese – spiega a Europa Lapo Pistelli, coordinatore del dipartimento relazioni internazionali del Pd – è giusto essere prudenti ma qui si va oltre la prudenza, siamo su un’altra lunghezza d’onda rispetto a tutti gli altri ministri europei e rispetto alla presidenza Obama. In fondo nelle piazze dei paesi del Maghreb non si sentono ripetere i vecchi slogan panarabi e panislamici.
Le nuove generazioni guardano al modello turco del partito filo-islamico moderato di Erdogan. Anche Al Qaeda è rimasta spiazzata da questo movimento: se vogliamo è un po’ naif ma non si può non riconoscere il potenziale democratico del processo che si è messo in moto».
Un imbarazzo, quello del nostro governo (che questa sera si riunirà per dicutere della situazione libica), che il sottosegretario agli esteri Mantica spiega con la special relationship tra i due paesi che passa dai rapporti di affari, da Unicredit a Eni, dalla Finmeccanica alla Juventus. «Ci sono 1500 italiani che lavorano in Libia: abbiamo con questo paese un rapporto particolare, non solo dovuto al rapporto Gheddafi- Berlusconi».
Appunto, non solo. E comunque lo stesso argomento può essere rovesciato nel suo opposto, nel dovere del governo italiano di intervenire nel cortile di casa proprio in virtù dei buoni rapporti con Tripoli.
Invece il palpabile disalinneamento del nostro paese rispetto al resto dell’Occidente rischia di isolarlo anche rispetto alle richieste di allargare il problema del controllo dei confini all’intera Ue, come chiede il ministro dell’interno Maroni.
Ieri l’unico esponente del Carroccio a intervenire è stato il presidente della commissione esteri della camera Stefani, mentre non è un mistero che l’eventuale divorzio degli interessi italiani da Gheddafi non dispiace al Carroccio, il quale per esempio aveva sfruttato la scalata libica a Unicredit proprio per regolare i conti con l’amministratore delegato (ora ex) Alessandro Profumo. Ieri il rappresentante di una delle principali fondazioni bancarie azioniste del gruppo, Andrea Comba di Crt, si è detto preoccupato per gli eventi in corso a Tripoli, costringendo i vertici del gruppo a intervenire per gettare acqua sul fuoco in un giorno che ha visto il titolo crollare del 5,6 per cento.
Giovanni Cocconi


Fonte:http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/124720/la_special_relationship_imbarazza_frattini

LA VERGOGNA: Il baciamano di Berlusconi a Gheddafi

22 febbraio 1943



Sarebbe una data da ricordare, quella di oggi.
Il 22 febbraio 1943 il regime di Adolf Hitler condannò a morte i tre ragazzi de "La Rosa Bianca". La loro colpa era stata quella di distribuire alcuni volantini fra gli studenti dell'Università di Monaco di Baviera, nei quali veniva predicata la resistenza non violenta agli ordini del governo nazista. Cinque ore dopo la sentenza fu messa in pratica: i tre ragazzi furono decapitati con la ghigliottina.
Una pagina di storia che si ricorda poco. Ed è un peccato.
Da quella storia è stato realizzato un bel film ("La Rosa Bianca") e su Youtube se ne possono trovare degli spezzoni. Ecco il processo: http://www.youtube.com/watch?v=nU0JQs3uRlk&feature=related

La Libia e l'Italia

In nome dell'accordo petrolifero, il Governo Berlusconi ha stretto legami con il dittatore libico, consentendo a quello di far sostare i suoi cammelli nella capitale d'Italia e di convertire ragazze italiane al culto di Maometto, almeno nella versione raccontata dal tiranno tripolitano. Non solo, ancora più grave è stata l'assunzione dei mercenari libici per arginare l'immigrazione verso le coste italiane: in questo modo l'Italia dell'inetto ministro Frattini ha sospeso anche il diritto d'asilo per quegli uomini e quelle donne che scappavano da dittature in cerca di libertà, come gli eritrei che attualmente vagano nel deserto del Sinai, oggetto delle sevizie dei mercanti d'uomini del deserto.


Dal blog NoiseFromAmerika, Michele Boldrin


Il comportamento del nostro governo rispetto alla Libia prova, se ve ne fosse bisogno, perché Silvio Berlusconi e la sua banda debbano essere mandati via al più presto possibile.



I fatti libici sono noti. Chi volesse un aggiornamento basta che visiti Al Jazeera. Sono anche noti a tutti l'inazione ed il silenzio del nostro governo, rotto solo negli ultimi due giorni da due interventi.
Primo quello del presidente del consiglio, che ha giustificato il suo totale silenzio affermando di non voler "disturbare" il suo amico Gheddafi. Oggi, di fronte alle reazioni del resto del mondo civile, il satrapo nazionale - noto estimatore di Gheddafi, il cui stile di vita cerca strenuamente di imitare mentre sogna di adottarne i metodi di governo - ha fatto emettere una nota della presidenza del consiglio nella quale
fa sapere di seguire con attenzione e preoccupazione l'evolversi della situazione e di considerare inaccettabile l'uso della violenza sulla popolazione civile. Nel comunicato si legge che il premier «è allarmato per l'aggravarsi degli scontri e per l'uso inaccettabile della violenza sulla popolazione civile». Nella nota Palazzo Chigi aggiunge che «L'Unione Europea e la Comunità internazionale dovranno compiere ogni sforzo per impedire che la crisi libica degeneri in una guerra civile dalle conseguenze difficilmente prevedibili, e favorire invece una soluzione pacifica che tuteli la sicurezza dei cittadini così come l'integrità e stabilità del Paese e dell'intera regione».
Di oggi l'intervento del ministro italiano degli esteri, il quale ha invitato l'Unione Europea a non "interferire" nelle vicende libiche. Dice Frattini che non vogliamo "esportare la democrazia", non in Libia almeno. In Iraq, come ci ha ricordato Filippo Solibello, invece sì: gli iracheni sono, evidentemente, più meritevoli dei libici. Un popolo, quest'ultimo, per il quale - sin da quando il generale Graziani esercitava la sua azione ''pacificatrice'' per ridare a Roma l'impero che, secondo i deliri fascisti, le spettava - le elites italiane sembrano avere ben scarsa considerazione.
Apprendiamo inoltre, dal Corriere della Sera, che la posizione ufficiale italiana è perfettamente allineata con quella della famiglia Gheddafi:
Rispetto alla Libia, il titolare della Farnesina auspica una «riconciliazione pacifica», arrivando a una Costituzione, come propone [il] figlio [di] Gheddafi.
Tutto ciò è così scandaloso da apparire banale, come solo il male politico riesce ad essere. Mentre un folle massacra la sua gente inerme, chi potrebbe fermarlo non agisce ma invita alla "stabilità del paese e dell'intera regione".

Segue

lunedì 21 febbraio 2011

Libia nel sangue, il governo Berlusconi "Non vuole disturbare"! Bersani e Bindi domani al sit-in del PD

Oltre 200 i morti a Bengasi, in Libia, dove gli scontri continuano, oscurati dalla Tv di stato. Ad al Beida presi in ostaggio trenta soldati. Servizio di Marcello Greco : TG3
“Fermare la violenza, aiutare la democrazia” con questo slogan ilPartito democratico ha promosso domani a Roma, presso piazza del Pantheon, alle ore 18.30, un sit-in per chiedere di fermare la repressione in Libia e l’avvio di una nuova fase democratica. All’iniziativa, che intende incalzare il governo italiano perché assuma le responsabilità che ci competono, uscendo dal penoso stallo e dall’imbarazzante silenzio in cui si trova, parteciperà il segretario nazionale del Pd Pier Luigi Bersani, il Presidente dell'Assemblea nazionale, Rosy Bindi, i capigruppo di Camera e Senato, Dario Franceschini e Anna Finocchiaro, militanti, dirigenti e parlamentari del Pd”.


Fonte: Partito Democratico



domenica 20 febbraio 2011

COMUNICATO STAMPA


Martedì 22 febbraio alle ore 21 il Partito Democratico di San Giustino organizza a Selci, presso il locale Cva, un’iniziativa su “territorio” e “Piano Casa Regionale”. Introduce l’incontro Stefano Veschi, Segretario del Coordinamento Comunale, mentre il relatore è Gianfranco Chiacchieroni (nella foto), consigliere regionale dell'Umbria e Presidente della Seconda Commissione Consiliare Permanente che si occupa di "Attività economiche e governo del territorio".


Questa è un’occasione davvero importante per comprendere quelli che sono i progetti dell’amministrazione regionale sia per il nostro territorio, sia per l’Umbria intera, soprattutto su ciò che concerne il Piano Casa, che proprio di recente ha subito delle modifiche rispetto alle previsioni originarie della legge regionale, essendo cambiati alcuni i limiti per realizzare gli interventi.


Alcune informazioni: “per le demolizioni e ricostruzioni è stata inserita la possibilità di ottenere un bonus aggiuntivo del 5% qualora sia prevista la realizzazione di locali per asili nido o altre funzioni socio-culturali pubbliche o di interesse pubblico. Ampliate anche le possibilità di intervento sugli edifici a destinazione non residenziale fatta eccezione degli immobili commerciali adibiti a medie e grandi strutture di vendita e dei centri o poli commerciali. Ulteriori incentivi sono previsti in caso di installazione di impianti fotovoltaici, rimozione delle coperture in amianto ovvero qualora si intervenga su aree da bonificare.
Tra le nuove previsioni c’è anche la possibilità di cumulare i premi di cubatura ammessi dalla legge con le premialità previste nel caso di certificazione di sostenibilità ambientale dell’edificio in classe A. I Comuni potranno decidere di escludere l’applicabilità delle nuove norme e stabilire limiti diversificati di incremento della volumetria per specifici immobili o zone del proprio territorio”.


Vista la particolarità della tematica affrontata, specie in un momento come l’attuale pieno di incognite, invitiamo tutti i cittadini a partecipare e a esporre le loro idee, perché soltanto da un confronto profondo e costruttivo possono nascere progetti di crescita e sviluppo, per tutti.


Per informazioni sulla nostra attività vi invitiamo a visitare il nostro blog: http://spaziodemocratico.blogspot.com mentre per esporre suggerimenti, critiche o quanto altro vi invitiamo a scrivere al nostro indirizzo email: pdsangiustino@gmail.com

Anna Ascani alla conferenza delle donne democratiche

sabato 19 febbraio 2011

"il premier rivuole la legge "bavaglio": ECCO DI NUOVO GLI SFASCISTI!

Giustizia, il governo va avanti


Il Cavaliere riunisce il governo, chiede tempi rapidi, rilancia sulle intercettazioni e punta sul vecchio testo senza le modifiche dei finiani. Sul tavolo anche il ripristino dell'immunità parlamentare. Anm: "Riforme punitive. Non ci intimidiscono"
ROMA - Giustizia, il governo insiste 1. Con il Consiglio dei ministri che approva all'unanimità la relazione del ministro della Giustizia Angelino Alfano sul ddl che contiene la riforma costituzionale della giustizia. E con l'annuncio di un Cdm straordinario che sarà convocato nei prossimi giorni per l'approvazione definitiva della riforma. Un comitato formato da ministri ed esperti si riunirà per approfondire i contenuti del testo. Da quello che filtra il premier punta anche a riprendere in mano il ddl sulle intercettazioni fermo alla Camera dei deputati, tornando però al testo originario, la cosidetta legge-bavaglio, vale a dire la versione precedente le modifiche imposte anche da finiani e centristi. Al momento tuttavia non è ancora chiaro se il ritorno al testo precedente le modifiche comporti degli emendamenti che facciano tornare al provvedimento così come era stato approvato dal Senato oppure se, pur modificandone l'impianto, il testo debba comunque essere sottoposto a un nuovo voto a Palazzo Madama.

Per Luca Palamara, presidente dell'Anm, si tratta di "un copione già visto: ogni volta che emergono vicende giudiziarie che coinvolgono il premier, prima arrivano insulti, poi seguono iniziative legislative punitive per i magistrati". "Noi non ci faremo intimidire - ha aggiunto il leader del sindacato delle toghe - e continueremo ad applicare la legge con serenità, imparzialità, in maniera eguale per tutti e a spiegare quali sono le riforme di cui la giustizia ha bisogno davvero". "Ciò che più preoccupa in questa fase - ha osservato Palamara - sono le posizioni di ministri in carica, Istruzione, addirittura Esteri e persino Giustizia, che partecipano senza alcuna remora, che pure sarebbe doverosa per la carica istituzionale ricoperta, alla sistematica aggressione nei confronti dei magistrati".

Chi ha partecipato questa mattina al Consiglio dei ministri ha parlato comunque di un Silvio Berlusconi soddisfatto per i nuovi innesti nella maggioranza. "Questa è una riforma basata su principi di civiltà" avrebbe detto annunciando altre novità in arrivo: "Dobbiamo fare in fretta perché è un problema non più rinviabile che dobbiamo risolvere quanto prima". Per poi rilanciare la riforma delle intercettazioni e dell'immunità parlamentare prevista dal vecchio articolo 68 della Costituzione.

"Al governo non interessa un sistema della giustizia che funzioni davvero - ha detto Antonio Di Pietro dell'Idv -. Per questa ragione le riforme che il governo ha annunciato di voler fare non sono in favore della giustizia e dei cittadini onesti ma dei delinquenti".

"E' paradossale - ha attaccato la capogruppo del Pd nella commissione giustizia della Camera, Donatella Ferranti - che il consiglio dei ministri abbia approvato alla cieca un testo di cui conosce poco più che i titoli. Quel voto unanime è quindi una preoccupante dimostrazione di fedeltà al capo da parte di ministri che sembrano agire ormai come se facessero parte del collegio difensivo del premier". A rincarare la dose è stata Anna Finocchiaro: " La riforma non è altro che la somma dei desideri del premier: intercettazioni, separazione delle carriere e ora anche immunità. Sempre e solo provvedimenti ad uso personale del presidente del Consiglio".

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