mercoledì 30 marzo 2011

Bersani: Berlusconi compra casa Lampedusa e salvacondotto qui

Il leader del Partito democratico Pier Luigi Bersani ha attaccato oggi duramente Silvio Berlusconi nel corso di un question time alla Camera sull'emergenza immigrati a Lampedusa, dicendo che il premier, oltre ad aver comprato una casa nell'isola siciliana, ha comprato anche "il salvacondotto" alla Camera, per far votare una legge che può avvantaggiarlo nei processi.

Bersani ha anche detto che il principale partito di opposizione non collaborerà per risolvere l'emergenza immigrati se il governo "non dirà una parola chiara al Paese", contestando il leader della Lega Nord e ministro Umberto Bossi che ieri ha detto che i migranti devono andare "fora da i ball".

"...perché Berlusconi sia andato oggi a fare i fuochi d'artificio - comprar case comprare barconi , mettere giù piani regolatori - a Lampedusa l'abbiamo capito stamattina qui", ha detto Bersani dopo l'intervento del ministro dell'Interno Roberto Maroni.

"Perché lui ha portato i riflettori là, ma il miracolo l'ha fatto qui, col processo breve. Lui là si compra la casa, e qui s'è comprato il salvacondotto. Cara Lega verremo a mettere i manifesti sulla 'Padania breve'".

Oggi l'aula di Montecitorio ha approvato l'inversione dell'ordine del giorno, su proposta del Pdl, per passare a esaminare il disegno di legge sul processo breve.

Il disegno di legge contiene anche un articolo che prevede tra l'altro l'estinzione dei reati in tempi meno lunghi per gli incensurati, una mossa che ha portato l'opposizione a parlare di nuova "legge ad personam" per favorire il premier

INVITO A CENA: ACCETTALO

NUCLEARE AL TORIO (ALTERNATIVA?)

L'incidente alla centrale di Fukushima Daiichi ha evidenziato i limiti di sicurezza degli impianti nucleari di oggi. Per la verità, i problemi sembrano più legati alle procedure di sicurezza e alla preparazione delle persone che devono gestire situazioni di emergenza all'interno delle centrali, che al nucleare vero e proprio. Non c'è dubbio, comunque, che le procedure, in ultima analisi, dipendono direttamente dalla tecnologia con cui la centrale è costruita e dal tipo di materiale che viene utilizzato per la produzione di energia.
In questo senso, Fukushima Daiichi - che, ricordiamo, è una centrale del tipo BWSR, ovvero con reattore ad acqua calda – ha dato fiato ai sostenitori degli impianti al torio. Tra questi va sicuramente annoverato il Premio Nobel Rubbia, che si è già fatto promotore di un progetto in tal senso. Alternative a quelle dell'uranio, le centrali al torio offrono diversi vantaggi ma anche qualche problema, soprattutto di tipo geopolitico. Cerchiamo di capire, allora, quali sono i termini del dibattito.
Minerale in sé non radioattivo, ma che se bombardato con neutroni lenti si trasforma in uranio 233, il torio è circa tre volte più abbondante dell'uranio. La fonte migliore è il suo fosfato, chiamato monazite, i cui giacimenti sono presenti in diversi paesi, Italia compresa. Australia, Usa, India e Turchia sono i paesi con una maggiore disponibilità di questo minerale. Secondo una stima dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (IAEA), nel mondo ci sono 4,4 milioni di tonnellate di torio estraibile.
Il prezzo di estrazione, oggi, è sotto gli 80 dollari al chilo. Ovvio che, dovesse veramente cominciare l'Era del torio, questo prezzo è destinato ad aumentare considerevolmente, man mano che il suo utilizzo di diffonde.
Sperimentato in diverse centrali in giro per il mondo con tecnologie differenti, in generale questo combustibile produce una quantità minore di scorie, che hanno anche un tempo di decadimento dell'ordine di alcune centinaia di anni 'soltanto', e non di millenni come nel caso dell'uranio. Inoltre in alcuni tipi di centrali questo minerale permette di lavorare a temperature e pressioni molto inferiori rispetto all'uranio, con una minore probabilità che si verifichino esplosioni anche accidentali.
Pur essendo studiate fin dagli anni '60, le centrali al torio non hanno mai suscitato l'interesse dei paesi occidentali: un censimento della World Nuclear Association riporta reattori sperimentali al torio in funzione in Usa e in Germania fino agli anni '80, ma la tecnologia è stata in seguito abbandonata.
L'uso di questo combustibile piace molto, invece, a Cina e India, che sono infatti ad un livello più avanzato in questo campo rispetto ai paesi europei e nordamericani. Pechino, tra l'altro, ha lanciato recentemente un programma per avere i primi reattori commerciali entro 20 anni, mentre Nuova Delhi dovrebbe inaugurare l'anno prossimo un reattore capace di funzionare con torio a Kalpakkam. Anche il progetto di Rubbia, il cosiddetto Rubbiatron, dopo essere stato acquistato dall'azienda norvegese Aker Solution potrebbe vedere la luce in uno di questi due paesi, più probabilmente la Cina.
Per l'uso commerciale del torio ci sono ancora diversi processi da mettere a punto, soprattutto per quanto riguarda la stabilità delle matrici che vengono usate e il riprocessamento del materiale una volta compiuto il primo ciclo.
Un altro problema deriva dal costo della preparazione del combustibile, perché l'uranio 233 va separato dal torio, anche se con la tecnologia dei sali fusi questo inconveniente dovrebbe essere superato.
Quella del torio viene comunque considerata una tecnologia più che di domani di dopodomani. Si parla, infatti, di almeno cinquanta anni (ma probabilmente di più) prima di avere in mano qualcosa di utilizzabile.
L'Italia ha compiuto alcuni studi nell'impianto Enea di Rotondella, ma ci sono ancora alcuni problemi di ricerca e sviluppo. Anche in presenza di un impegno massiccio politico e finanziario – che peraltro manca – gli ostacoli tecnologici che oggi si presentano sarebbero superabili, ma in un arco di tempo di decenni.
Dal punto di vista della geopolitica, assecondare un cambio di rotta dall'uranio al torio sposterebbe ulteriormente l'asse politico mondiale verso Cina e India, le due nazioni più avanzate in questo campo. È pronta l'Europa ad affrontare un tale cambiamento, che la relegherebbe in una posizione ancora più periferica rispetto a quanto sia oggi? Questa è sicuramente una domanda a cui Bruxelles e le maggiori capitali dell'UE – Londra, Berlino, Parigi e anche Roma – devono trovare una risposta, prima di decidere su quale linea di sviluppo indirizzarsi.

Nucleare. Rubbia: prendiamo il TORIO per le corna

Nucleare alternativo: «Usiamo il torio della Valchiavenna»


CHIAVENNA «Il granito della Valchiavenna è pieno di torio, ma le nostre sollecitazioni per arrivare ad aprire un dibattito scientifico e politico sull'utilizzo di un nucleare alternativo fino ad ora non hanno avuto nessuna risposta». Parte da due militanti leghisti della prima ora, Davide Tavasci e Chicco Triaca, la proposta di aprire una discussione sulle possibilità offerte dallo sfruttamento del torio.
L'idea non è certo nuova. Si tratterebbe di riprendere i progetti di reattore nucleare del premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia: «Abbiamo fatto delle ricerche dopo aver letto qualche articolo in merito – commentano i due valchiavennaschi – e siamo rimasti stupiti. E' evidente che dopo quanto accaduto in Giappone il referendum su nucleare vedrà una larga vittoria dei sì. Per questo, e anche con un occhio all'economia della Valchiavenna, abbiamo chiesto ai nostri referenti politici e istituzionali a livello provinciale e regionale di prendere in considerazione l'idea di Rubbia».
Detta in parole povere un reattore nucleare potenzialmente più sicuro, visto che senza una specifica reazione chimica il torio non è attivo, con scorie radioattive per un tempo infinitamente minore rispetto a plutonio e uranio, 300 anni contro i 24 mila del plutonio, e senza possibilità di sfruttare la tecnologia anche a scopi militari.
«Abbiamo interpellato un geologo – spiegano i due – e ci è stata confermata la presenza di torio in quantità rilevanti nel nostro granito. Che si potrebbe, quindi, sfruttare per fare ben altro che le massicciate ferroviarie dell'Alta Velocità. Il torio è presente sul pianeta in quantità di 4-5 volte superiori all'uranio. Siamo dispiaciuti per il fatto che la nostra proposta, che abbiamo presentato anche a Pontida, non abbia ricevuto alcuna attenzione. Speriamo che qualcuno dei nostri se ne accorga».
L'inconveniente del torio è di tipo economico. I costi per la sua estrazione, infatti, sono più alti rispetto a quello degli altri elementi utilizzati nelle centrali nucleari convenzionali. Anche in quelle di terza generazione che il Governo vorrebbe realizzare in Italia: «L'uranio, però, si sta esaurendo – commentano i due valchiavennaschi – e, infatti, ci risulta che il reattore di Rubbia sia oggetto di approfondimenti in nazioni come India e Stati Uniti. Ancora una volta rischiamo di perdere il treno, con una idea italiana utilizzata da altri. Ci piacerebbe avere Rubbia in provincia per un incontro sul tema. Ci sembra giusto che tutte le opzioni siano presentate alla popolazione».

martedì 29 marzo 2011

VISTI E RIVISTI: Gli aerei americani hanno poco a che fare con la «no fly zone"»

AC 130H «Spectre» e «A 10» sono velivoli per l’appoggio alle truppe dei ribelli anti-Gheddafi


WASHINGTON – Barack Obama vorrà pure ridurre l’impegno militare in Libia e il Pentagono ha richiamato alcune unità navali. Ma i mezzi che gli Usa stanno impiegando rivelano chiaramente le intenzioni. Fonti militari hanno annunciato che nel paese nord africano operano gli AC 130H “Spectre” e gli "A 10". Sono due aerei concepiti per distruggere carri armati, mezzi, pezzi d’artiglieria. Con un potere di fuoco devastante hanno partecipato a tutte le recenti campagne statunitensi, dall’Iraq all’Afghanistan. Lo “Spectre” è un erede di un velivolo impiegato per la prima volta in Vietnam ed è una versione modificata del celebre C 130 Hercules da trasporto. Può essere armato con un pezzo da 105 millimetri, cannoncini da 40 e 25 millimetri guidati da sistemi sofisticati. L’aereo può ingaggiare due obiettivi simultaneamente e i suoi apparati correggono il tiro. E’ devastante quando affronta colonne in movimento ma è anche accurato nell’individuare bersagli singoli. LO “Spectre” può solo sparare dal lato sinistro e per questo “orbita” attorno al bersaglio. L’equipaggio è composto da 5 uomini più 8 addetti alle armi. In Libia è stato probabilmente usato contro i corazzati delle Brigate Khamis che bombardano le città ribelli e che difendono la zona occidentale.

AEREI LONTANI DAI COMPITI DELLA NO FLY ZONE - Il ricorso allo “Spectre” – che è s


Due A10 in volo tato rischierato in Italia – e all’A 10 – altro distruttore di carri – ha poco a che fare con la no fly zone. Anzi non c’è alcun legame visto che si tratta di aerei per l’appoggio alle truppe. In questo caso ai ribelli anti-Gheddafi. Per cui l’affermazione – ripetuta più volte – che gli Usa non stanno fornendo supporto diretto agli insorti è smentita dai fatti. L’unica giustificazione è che lo “Spectre” e l’“A 10” possono aiutare la coalizione a spezzare l’assedio a Misurata o Zawiya, città martoriate dai cannoni del regime. E dunque proteggono la popolazione, come prevede l’Onu. Del resto gli Stati Uniti, con Francia e Gran Bretagna, interpretano la risoluzione delle Nazioni Unite in modo più ampio e – come dicono loro – “flessibile”. Italia e Spagna, all’opposto, ritengono che il mandato sia quello di applicare la no fly zone.

corriere.it

il governo del far male: pur dando le basi nemmeno ci convocano al vertice per la Libia, presenti Usa, Gb, Francia, Germania! Siamo proprio rispettati

Obama, Sarkozy, Cameron e Merkel si consultano stasera, lunedì 28, in video conferenza sulla Libia. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania. E l'Italia? Non c'è. Non l'hanno chiamata. Eppure - ha giurato il ministro Frattini - abbiamo un piano italo-tedesco sulla crisi libica e, semprev secondo il nostro governo, siamo tra i paesi che decidono il futuro di quest'area. Ma quando c'è da prendere decisioni vere, evidentemente la Farnesina guidata da Frattini e Palazzo Chigi con Berlusconi sono tagliati fuori.

«Sarebbe di grande utilità che il governo italiano spiegasse l'esclusione o la mancata presenza alla videoconferenza di questa sera», afferma l'eurodeputato del Pd e presidente della Delegazione Maghreb al Parlamento europeo, Antonio Panzeri. «Dopo aver annunciato in tutte le salse la predisposizione di un piano per la Libia in stretto rapporto con la Merkel – osserva Panzeri -, il fatto che Obama, Sarkozy Cameron e Merkel si consultino stasera senza l'Italia dimostra intanto che quel piano rischia di essere una pura velleità, in secondo luogo che le nostre continue incertezze producono di fatto una marginalizzazione e un mancato protagonismo di un paese importante come l'Italia. Un vuoto che pagheremo caro sia sotto il profilo geopolitico che sotto quello economico».

A tali parole, il ministro Frattini fa l'offeso. «Se pensano che il bene dell'Italia è speculare sulla politica estera continuino a farlo...», dichiara a Otto e Mezzo su La7.

Sul territorio libico, Abdulhafiz Ghoga, portavoce del consiglio nazionale di transizione, la rappresentanza politica degli insorti libici a Bengasi, lancia un appello a chi sta ancora con il colonnello e promette “perdono” in caso di resa: «Chiediamo alle persone che sono ancora con Gheddafi di abbandonarlo. se lo faranno, verranno perdonate tutte le loro cattive azioni».

Tornando alla diplomazia, mentre i primi aerei dell'Alleanza sotto il comando Nato sorvolano i cieli libici per fare rispettare il divieto di volo, la Russia accusa l'Alleanza di «ingerenza». Parigi e Londra invece non vogliono sentire parlare di imparzialità: in una dichiarazione congiunta chiedono che il colonnello Gheddafi lasci «immediatamente» e che la transizione in Libia venga affidata al Comitato Nazionale di Transizione (Cnt). «Noi consideriamo che l'intervento della coalizione in quella che è essenzialmente una guerra civile interna non è stato autorizzato dalla risoluzione del consiglio di sicurezza dell'Onu», ha dichiarato a Mosca il capo della diplomazia russa, Serghei Lavrov. «La Nato applicherà tutti gli aspetti della risoluzione delle Nazioni Unite. Niente di più, niente di meno», ha replicato da Bruxelles il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen. «Il mandato dell'Onu per la protezione e l'aiuto alle popolazioni civili è chiaro e la Nato lo applicherà in modo imparziale», ha rincarato la sua portavoce Oana Lungescu.

unità.it

lunedì 28 marzo 2011

ENERGIE ALTERNATIVE: anche la Scozia è più avanti: dietro di noi resta solo la Repubblica Democratica del Congo

La Scozia punta sulle maree: ok alla più grande centrale elettrica del mondo
Fornirà energia a 10 mila abitazioni con un investimento di 45,5 milioni di euro


Le turbine della centrale di Islay (da Spr) MILANO - La più grande centrale elettrica che produrrà energia dalle maree sarà installata in Scozia nello stretto di Islay, tra l'omonima isola famosa per il whisky e quella di Jura. L'approvazione al progetto è giunta dal governo scozzese lo scorso 17 marzo, un esecutivo che si sta lanciando sulle energie rinnovabili in previsione del prossimo esaurimento dei giacimenti di petrolio e gas del mare del Nord. ScottishPower Renewables (Spr) svilupperà il progetto da 10 megawatt grazie all'installazione sul fondo marino di dieci turbine, ognuna da 1 MW. Turbine simili sono già state in azione da sei anni in Norvegia e sono in corso di posizionamento entro la fine dell'anno in un altro impianto sottomarino scozzese alle isole Orcadi. Il posizionamento delle prime turbine avverrà il prossimo anno mentre l'entrata in esercizio della centrale è prevista tra il 2013 e il 2015. L'investimento è di 40 milioni di sterline, circa 45,5 milioni di euro.
MAREE - La Scozia è ritenuta il posto ideale al mondo per lo sfruttamento dell'energia dalle maree - un quarto di tutto il potenziale europeo, secondo John Swinney, ministro delle Finanze scozzese - e il progetto di Islay, oltre naturalmente a produrre energia, servirà anche per studiare e sviluppare la tecnologia legata a questo importante settore delle energie rinnovabili. La scelta dello stretto di Islay non è dovuta solo alle forti maree presenti - con un flusso che arriva a una velocità di 11,4 chilometri all'ora - ma anche perché è protetto dall'arrivo di forti onde e di tempeste e l'isola ha già una rete elettrica sviluppata. La centrale di Islay fornirà energia a 10 mila abitazioni, più del doppio di quelle presenti sull'isola.

corriere.it

Il Comune di San Giustino ha esposto il bando per ottenere le agevolazioni Tarsu

Il Comune di San Giustino ha attivato le procedure per assegnare i fondi disponibili a seguito delle agevolazioni tariffarie nei confronti dei titolari di Utenze Domestiche della Tarsu, che versano in condizioni di disagio sociale ed economico, messe a disposizioni dalle Regione Umbria. Tra le condizioni occorre essere contribuenti della tassa per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani per l’anno 2011, essere residenti nel comune di San Giustino alla data 1 gennaio 2011, essere titolari di indicatore Isee inferiore o pari a 7.500 euro, non essere titolari di analoghe agevolazioni. Gli interessati, entro il 23 aprile, dovranno presentare la documentazione necessaria, disponibile negli uffici Servizi Sociali ed Entrate del Comune o sul sito internet www.comune.sangiustino.pg.it, all’Ufficio Servizi Sociali del Comune, in piazza Municipio, al terzo piano, nei giorni di lunedì, venerdì e sabato dalle 9 alle 13. 

domenica 27 marzo 2011

INCREDIBILE MA VERO/NON VERO: “All’Aquila tutto bene”

Parola (falsa) di Forum A Forum, finti aquilani per esaltare la ricostruzione della città. Stefania Pezzopane scrive a Rita Dalla Chiesa, gli aquilani protestano sul webChe spesso a Forum ci siano attori a interpretare i protagonisti delle varie cause, è cosa nota e non fa notizia. Altro discorso è, tuttavia, quando questa prassi viene utilizzata per veicolare concetti cari al Governo. Come il presunto “miracolo aquilano”.

Ecco cosa va in onda nel corso della puntata di venerdì 25 marzo, la mattina, su Canale5 (la si può vedere per una settimana sul sito ufficiale).

Rita Dalla Chiesa presenta una causa di tal Marina, sedicente aquilana terremotata e titolare di un negozio di abiti da sposa. La signora chiede all’ex marito, da cui è separata, un contributo una tantum, in luogo degli alimenti, per far ripartire la propria attività. Nel corso del dibattito, la signora dice, fra l’altro, che dopo il terremoto «Hanno riaperto tutte le attività, manca solo la mia. Stanno pure ricostruendo. Anzi, dobbiamo ringraziare qualcuno che non ci ha fatto mancare niente.» Racconta la notte del 6 aprile, la descrive come «la fine del mondo. Si sono staccati persino i termosifoni dal muro.» Dice di non voler fare la terremotata a vita, di volersi rimboccare le maniche, poi ringrazia il Presidente, il Governo: «Tutti hanno le case, coi giardini, coi garage, nessuno sta in mezzo alla strada, le attività stanno riaprendo, voglio riaprire anche la mia.» Dell’emergenza abitativa all’Aquila si è già detto.

Dalla Chiesa la incalza: «So che adesso mi tirerò addosso gli strali, ma dovete ringraziare anche Bertolaso, perché ha fatto un grandissimo lavoro». Comincia a diventare chiaro il messaggio: la signora Marina, che vincerà la causa, rappresenta l’ottimismo e la gratitudine, l’ex marito invece è il pessimista ingrato. Una rappresentazione binaria della realtà aquilana, che naturalmente non corrisponde al vero.

Quando il giudice si ritira per deliberare, durante il talk show di commento, la cosa diventa ancora più evidente. La signora Marina dichiara, per esempio: «Sono rimaste fuori solo 300/400 persone, stanno in hotel perché gli fa pure comodo, mangiano, bevono e non pagano nulla, pure io ci vorrei andare.»

La cosa, come si può verificare dal sito ufficiale del Commissario per la ricostruzione, non risponde al vero e non rappresenta la realtà aquilana. Ma c’è dell’altro. La signora non è aquilana. Su Facebook, fra i terremotati, la notizia comincia a circolare: Marina sarebbe, in realtà, una fioraia di Popoli (in provincia di Pescara). Non una terremotata. E gli aquilani veri cominciano a protestare sulla pagina Facebook del programma, in maniera veemente. I tentativi di riequilibrare il dibattito in studio vengono lasciati a poche voci disinformate: una ragazza sostiene di aver lavorato con la Protezione civile e dice che all’Aquila ci sono ancora le tendopoli. Ovviamente non è vero. Arriva persino un ragazzo veneto che propone la retorica del bisogna rimboccarsi le maniche. Il quadro si completa.

L’Assessore alla Ricostruzione, Stefania Pezzopane, dice al Quotidiano d’Abruzzo: «Della sartoria della signora a L’Aquila non c’è mai stata ombra. Se avessero voluto raccontare storie vere, qui ne abbiamo tante. Il fatto che si sia voluto rappresentare un dramma con una storia finta la dice lunga sulle intenzioni di certi mezzi di informazione che hanno oscurato L’Aquila per mesi e ora, alla vigilia del secondo anno, quando sono attesi mezzi di informazione da tutta Europa in città, cercano di “ridimensionare” un presente che non è quello raccontato».

Poi, scrive una lettera alla conduttrice «Durante la trasmissione persone che, mi risulta, nulla hanno a che vedere con L‟Aquila, hanno parlato della situazione attuale, facendone un quadro distorto e assolutamente non veritiero». E le rivolge un invito: «La invito a venire all’Aquila per vedere con i suoi occhi come si vive qui e che cos’è stato il nostro terremoto».

Ma intanto, televisivamente parlando, il messaggio è passato. Al punto che la parte dedicata alla causa di “Marina la sarta aquilana” viene chiusa con la lettura di una mail da parte di tal Anna da Pescara. Che chiosa: «Gli aquilani sono un popolo un po’ vittimistico. Tanta gente sta approfittando della tragedia». E probabilmente, per la maggior parte degli spettatori di Forum (la puntata ha totalizzato uno share del 20,05% per 1.642.000 spettatori) l’udienza è tolta.


ilfattoquotidiano

La diocesi di Pistoia e gli stili di vita amici dell'acqua

Leggo su: http://rosabiancarosarossa.blogspot.com, un messaggio inviato da Marcello Suppressa, Direttore Caritas Diocesi di Pistoia. Il tema dell'acqua come bene comune è destinato a entrare nelle coscienze di molti e auspico una riflessione seria sul significato. Questo documento offre molti spunti ai cittadini di San Giustino credenti e non credenti...


“Dobbiamo imparare a usare l’acqua con sobrietà e senza spreco”. E’ il quinto invito di una “campagna” particolare – tutta rivolta all’acqua - cui la diocesi di Pistoia ha aderito, su indicazione del vescovo Bianchi e tramite due suoi uffici pastorali.
Si chiama “Una campagna per il tempo di Pasqua” ed è promossa dalla rete interdiocesana “Nuovi stili di vita” con l’adesione di una dozzina di diocesi italiane. Da qualche giorno – spiegano Marcello Suppressa e Selma Ferrali, direttori degli uffici diocesani per la Caritas e per la Pastorale Sociale – ha aderito, prima in Toscana, anche la diocesi di Pistoia.
Il “manifesto” si compone di undici punti ed è diviso in quattro capitoli. Il primo (“Acqua: dono di Dio e bene comune”) ha un carattere più pastorale ricordando come l’acqua sia “uno dei grandi doni della Creazione, tramite i quali Dio dona la vita a tutte le creature”. Riprendendo il compendio della dottrina sociale della Chiesa, il manifesto precisa che “l’accesso all’acqua è un diritto universale inalienabile” per poi aggiungere che la campagna per l’acqua è “una proposta cristiana al di sopra di ogni schieramento politico e ideologico, un invito ad adottare stili di vita e comportamenti che tutelino questo bene prezioso comune, garantendone la disponibilità per tutti”.
Nel capitolo successivo (“Stili di vita amici dell’acqua”) non mancano proposte concrete per non sprecare l’acqua: scegliere, ad esempio, la doccia al posto del bagno, non lasciare rubinetti aperti, evitare le perdite, fare attenzione nella scelta dei prodotti, privilegiare l’uso dell’acqua da rubinetto e, quando è assolutamente necessario usare l’acqua minerale, allora preferire almeno quelle imbottigliate vicino casa (“a chilometro zero”).
Si entra poi in una dimensione più “politica” sottolineando come quello all’acqua sia “un diritto da tutelare”: l’acqua non può essere trattata come una “mera merce”; le autorità devono garantirne “la qualità”; la gestione dell’acqua deve essere “comunitaria, orientata alla partecipazione di tutti e non determinata dalla logica del profitto”.
E si mettono i piedi anche nell’attualità stretta in vista dell’imminente referendum sulla gestione dell’acqua. L’invito è a “partecipare attivamente al dibattito” davanti a un appuntamento “che mira a salvaguardare l’acqua come bene comune e diritto universale, evitando che diventi una merce privata o riprivatizzabile ma ripubblicizzandola mediante una forma di gestione pubblica e partecipata dei servizi idrici”.
Tutto “religioso” l’undicesimo e ultimo “comandamento” con un invito alla preghiera, e all’azione, nei giorni di Quaresima. “Contempliamo l’acqua, nella preghiera personale e comunitaria come nelle pratiche, come un segno di quell’amore vivificante che Dio offre a ognuno di noi e alla famiglia umana”.


Una campagna per il tempo di Pasqua promossa dalla Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita


Acqua: dono di Dio e bene comune
1) L’acqua è uno dei grandi doni della creazione, tramite i quali Dio dona la vita a tutte le sue creature. Non a caso, gran parte delle religioni dell’umanità vede in essa un segno della presenza del Mistero e un simbolo di purificazione e rinascita. Lo stesso tempo pasquale invita a vivere alla luce del Risorto, scoprendolo come “sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv. 4, 14).
2) Noi stessi, come tanti altri esseri viventi, siamo fatti in gran parte d’acqua e dipendiamo dal suo continuo ciclo. L’acqua è quindi essenziale per la vita delle persone e l’accesso ad essa costituisce un “diritto universale inalienabile” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n.485; cf. anche Caritas in Veritate n. 27).
3) “Il principio della destinazione universale dei beni si applica naturalmente anche all'acqua” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n.484), ma la fruizione di tale diritto è preclusa a un gran numero di esseri umani, ponendo un grave problema di giustizia. Un quarto della popolazione del pianeta, infatti, non ha accesso ad una quantità minima di acqua pulita, mentre oltre 2,5 miliardi di persone non hanno accesso ai servizi igienico-sanitari di base, determinando anche la diffusione di gravi malattie endemiche.
4) La campagna “Acqua, dono di Dio e bene comune”, unaproposta cristiana al di sopra di ogni schieramento politico e ideologico, è un invito ad adottare stili di vita e comportamenti che tutelino questo prezioso bene comune, garantendone la disponibilità per tutti. Proponiamo alle Chiese locali, la costruzione di percorsi pastorali, adatti al proprio territorio, che conducano i cristiani a riscoprire lo sguardo di Francesco, che chiamava l’acqua “sorella”, rinnovando così coerentemente le proprie pratiche.
Stili di vita amici dell’acqua
5) L’acqua è un bene prezioso e la sua accessibilità è limitata; dobbiamo quindi imparare ad usarla con sobrietà e senza spreco. Tante sono le pratiche possibili: scegliere la doccia al posto del bagno, non lasciar il rubinetto aperto quando ci laviamo i denti o facciamo la barba, o ancora evitare le perdite, mettere sui rubinetti i riduttori di flusso che fanno risparmiare acqua miscelandola con l’aria.
6) Occorre attenzione anche nella scelta dei prodotti che mangiamo e che indossiamo, preferendo quelli che richiedono meno acqua per la produzione. Teniamo presente, ad esempio, che la produzione di carne esige molta acqua (un chilo di carne bovina comporta in media l’uso di 5.500 litri, mentre un chilo di carne di pollo ne richiede 3.900 litri) e che ci vogliono 10.000 litri d’acqua per produrre un paio di jeans e 2 mila per una maglietta di cotone.
7) È importante privilegiare l’uso dell’acqua del rubinetto, che è buona, controllata, comoda e costa poco. Il suo impatto ambientale è limitato anche perché non richiede né involucri in plastica, né trasporti inquinanti. In quelle situazioni in cui è assolutamente necessario l’uso dell’acqua minerale, andranno almeno preferite acque a chilometri zero (imbottigliate vicino a casa); si cercherà poi di acquistare confezioni grandi e/o in vetro per ridurre la produzione di rifiuti.
Un diritto da tutelare
8) La possibilità di usare l’acqua del rubinetto richiede necessariamente che ne sia garantita la qualità da parte delle diverse autorità a ciò preposte. Una puntuale vigilanza in tal senso è parte della pratica di custodia del creato cui sono chiamati i cristiani.
9) “L'acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale” La distribuzione dell’acqua ha dei costi, ma su di essa non si può fare profitto in quanto il diritto al suo uso si fonda sulla dignità della persona umana e non su logiche economiche (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n.485). L’acqua è quindi un vero bene comune, che esige una gestione comunitaria, orientata alla partecipazione di tutti e non determinata dalla logica del profitto.
10) Il diritto all’acqua deve dunque essere garantito anche sul piano normativo, mettendo in discussione quelle leggi che la riducono a bene economico. Sarà importante, quindi, partecipare attivamente al dibattito legato al referendum sulla gestione dell’acqua, che mira a salvaguardarla come bene comune e diritto universale, evitando che diventi una merce privata o privatizzabile, ma ripubblicizzandola mediante una forma di gestione pubblica e partecipata dei servizi idrici.
Vivere l’acqua
11) “E mi mostrò un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che da frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni”. (Ap. 22, 1-2). Pasqua è tempo di vita nuova, nel quale siamo invitati a partecipare nello Spirito alla vita della nuova creazione. Contempliamo l’acqua – nella preghiera personale e comunitaria, come nelle pratiche - come un segno di quell’amore vivificante che Dio offre ad ognuno di noi ed alla famiglia umana.


Manifesto firmato dalle diocesi:
Andria - Belluno-Feltre - Bolzano-Bressanone - Brescia - Carpi - Cuneo - Milano - Padova - Pescara – Penne - Reggio Emilia - Termoli-Larino - Trento - Vittorio Veneto - Senigallia - Lanciano Ortona - Pistoia

Le carte delle inchieste sul neoministro dell'Agricoltura. Quei rapporti pericolosi con i boss siciliani



Francesco Buscemi starà festeggiando a suon di cannoli dopo avere visto in televisione il suo amico Saverio Romano giurare come ministro dell’agricoltura. L’uomo giusto al posto giusto. Nell’indagine che portò all’arresto di Buscemi per mafia c’è un’intercettazione del 2001 che spiega la sua felicità.


Buscemi era indagato per i suoi rapporti con il boss del mandamento di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, e con il braccio destro di Bernardo Provenzano, Giuseppe Lipari. Nato nel 1935, legatissimo a Vito Ciancimino, funzionario ai Lavori pubblici della Provincia, Buscemi sarà condannato in primo grado per il suo ruolo di ponte tra mafia e politica e si salverà in appello grazie alla derubricazione dell’accusa di mafia in favoreggiamento semplice, reato prescritto. Nei mesi precedenti alle elezioni del 2001 Buscemi andava a trovare il boss Guttadauro, uscito da poco di galera per concordare le strategie e i candidati. Il 3 maggio del 2001, per convincere il boss a sostenere Romano ricorda con orgoglio le “pazzie” di quel “ragazzo grazioso” per lui. Il dialogo merita di essere riproposto a beneficio di chi ha vistato la nomina di questo 46enne di Belmonte Mezzagno a capo di un ministero che dovrà gestire nei prossimi anni 15 miliardi di euro.


FR: Francesco Buscemi.
GU: Giuseppe Guttadauro.


FR: Tu sai che si porta a Bagheria? Si porta alle nazionali Saverio Romano…
GU: sì
FR: Saverio ti ho detto che per una cosa mia ha fatto pazzie. Perché lui è presidente dell’I.R.C.A.C. (l’istituto regionale per il credito cooperativo Ndr)…
GU: lo so…
FR: te l’avevo detto… presidente dell’I.R.C.A.C. ed avevo quella cosa sia al Banco di Sicilia – Cassa di Risparmio e sia all’ I.R.C.A.C., l’ultimo periodo all’I.R.C.A.C. Io dovevo pagare per uscirmene da quella camurria di quella firma che ho messo da Pacego (o simile)… quarantaduemilioni. Minchia, Saverio mi risulta per una settimana non ci andò perché gli avevano messo la “cosa” per firmarla … per dire che non mi davano più il benestare… perché Saverio ci ha fatto levare qualche trenta milioni, no a me a chi…. ai tre che eravamo. Così. Però mi disse Franco bisogna pagarli, quelli due pagali …perché passa il tempo ed io sono nei guai. Chiamò l’avvocato Minì’ (o simile) il Vice Direttore generale al suo studio e gli ha detto tu domani prende la lettera sul mio tavolo e te la porti da te e la fai scomparire per otto giorni ed io a otto giorni non vengo .. vedi che con me si è comportato molto abilmente …della nostra amicizia.
Ovvio che Buscemi insista con il boss.
FR: infatti ho detto a me stesso ne parlo con Peppino (Guttadauro Ndr) dico a te è arrivato input per Saverio Romano?
GU: si va be ma non…
FR: e allora ti è arrivato ..no..no…non… basta
GU: non è problema….
FR: te lo detto pure io..
GU: si va…
FR: con me si è comportato bene le cose giuste..
GU: si ma …
FR: e poi è un ragazzo grazioso …sarà eletto
GU: sicuro è eletto.


Il boss aveva ragione. Romano sarà eletto nel collegio di Bagheria e inizierà l’ascesa che lo porterà al dicastero dell’agricoltura. Il ministro proviene dalla stessa nidiata di Cuffaro: la Dc siciliana di Calogero Mannino. Il pentito Francesco Campanella, giovane consigliere comunale di Villabate passato alla storia come l’uomo che ha fornito la carta di indentità a Bernardo Provenzano per il suo viaggio a Marsiglia, fissa nella memoria un’istantanea: un pranzo romano nel 2001 quando Campanella era a sinistra, nell’Udeur di Mastella, mentre Romano correva a destra con Cuffaro. “Eravamo in una trattoria a Campo de’ Fiori con Franco Bruno, capo di gabinetto dell’allora onorevole Marianna Li Calzi, sottosegretario di Stato alla Giustizia e il dottor Sarno, che era un magistrato, sempre del gabinetto dell’onorevole Li Calzi. C’era anche mia moglie poi si aggiunsero Saverio Romano e l’onorevole Cuffaro che erano a Roma per questioni legate alle politiche del 2001. Franco Bruno, che conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, scherzando a tavola disse: “Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra?”. Stizzito l’onorevole Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: “No, Francesco mi vota, perché…”, lo disse in siciliano, “perché siamo della stessa famiglia”. E poi girato verso di me aggiunse: “Scinni a Villabate e t’informi”. Proprio con un atteggiamento duro e un riferimento specifico alla famiglia mafiosa, tanto da lasciare tutte le persone che erano presenti a quel pranzo senza fiato, senza parole [...]….Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.


Ma non basta. Nella sentenza di appello che condanna Totò Cuffaro per favoreggiamento con l’aggravante di mafia, si legge:


…Secondo il Tribunale era pertanto pacificamente emerso che sia Romano che Cuffaro erano stati informati in modo palese e chiaro dal Campanella che la candidatura di Acanto era voluta dal gruppo di Villabate facente capo ad Antonino Mandalà (poi condannato in primo grado per mafia Ndr) cosa che i due avevano comunque accolto di buon grado; Il pm Antonino Di Matteo ha chiesto l’archiviazione per Romano con questa motivazione poco onorevole: “le dichiarazioni di Campanella sono parzialmente riscontrate con riferimento a significativi episodi denotanti la contiguità dell’indagato al sistema mafioso”. Le dichiarazioni del pentito invece “non hanno trovato adeguato riscontro nella parte in cui si riferivano a condotte poste in essere da Romano concretamente per favorire gli interessi della mafia”. Per il concorso esterno è necessario un contributo concreto a Cosa Nostra, non solo la contiguità. Quella però dovrebbe bastare per non essere scelti come ministri.

profetica lettera di Piero Calamandrei sulla scuola, scritta nel 1950

“Quando la scuola pubblica è cosa forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre:- che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre.- che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione.
Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione. Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime.
Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto:
- rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni.- attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette.- dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. » la fase più pericolosa di tutta l’operazione […]. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito […].
Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”. Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche […]. Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla […]. E venuta cos” fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico.
Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno […].
Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? » un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica.
Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! […]. Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito“.

PIERO CALAMANDREI, 1950

«Sogno di dire sei italiano a chi è nato qua»

Per il segretario del Pd Bersani poter dire 'da oggi sei italiano' agli immigrati di seconda generazione nati nel nostro paese sarebbe «la giornata più bella». Con questa immagine ha concluso il suo intervento al primo forum dei Democratici sull'immigrazione in corso a Roma fino a domani, sabato 26.

Bersani ha sintetizzato «l'idea alternativa» per una moderna politica di immigrazione. Parlando dei molti luoghi comuni sull'immigrazione e sul Pd, Bersani ha chiarito: «Noi non siamo quelli del buonismo, del lassismo e della sregolatezza: siamo quelli che dicono doveri e diritti, siamo quelli che pensano che umanità e governabilità del fenomeno immigrazione sono strettamente legati e possibili: questi siamo noi!».

Per il segretario non basta la sola «solidarietà» perché «questa parola va coniugata con razionalità, molta razionalità. La destra ha fallito su questo tema e dobbiamo dirlo. Noi - ha aggiunto - abbiamo altre idee per governare questo tema: conoscere i problemi, le difficoltà, le questioni in campo. noi ci stiamo lavorando e ci lavoreremo quando governeremo. e dico che sarei orgoglioso di essere fra quelli che a questi bambini (presenti alla conferenza, n.d.r.) che non sanno se sono immigrati o se sono italiani, possano finalmente dire 'sei un italiano'. sarebbe la più bella giornata che mi potrebbe capitare!».

Fonte: Unità del 25 marzo 2011

sabato 26 marzo 2011

Il ruolo dell'Italia sulla Guerra

12 nuovi sottosegretari e un’altra accisa sulla benzina: grazie Silvio!


Prima la nuova accisa di 2 centesimi sulla benzina per finanziare la Cultura, poi l’idea di creare altri 12 nuovi sottosegretari per introdurre i “Responsabili” nel Governo.
La benzina era già un problema per tutti visto il prezzo. Figuriamoci ora. I 12 “politici” ci costeranno una media di 7 mila euro al mese. Introdotti nell’esecutivo a metà legislatura solo per non far cadere Berlusconi e non per la loro utilità.
Dopo tutti questi anni passati a tagliare il possibile, spiegandoci che bisognava”salvare il paese dalla crisi”, levando soldi alla scuola e alla sanità, ai mezzi pubblici e alla stessa cultura. Toccando addirittura i disabili.
Ora invece si regalano poltrone a pioggia, solo per questioni politiche. Se pure una cosa semplice come questa non è compresa dal “berlusconis comunis”, non so che altro dire perchè non abbiamo più speranze.
Risvegliati Italia!

Welfare, la Cgil: «Cooperazione sociale è vicino al collasso»

Il settore della cooperazione sociale è vicino al collasso. Il grido di allarme viene dalle lavoratrici e dai lavoratori della Fp-Cgil.
Ritardi nei pagamenti L’assemblea regionale dei lavoratori e delle lavoratrici della cooperazione sociale che  si è tenuta martedì 22 a Terni alla presenza della segretaria generale della Fp-Cgil Rossana Dettori, ha denunciato la grave situazione economica che si è venuta a determinare in tutto il territorio regionale, ma in particolare nella provincia di Terni, «dove – si legge in una nota – alla riduzione dei servizi, determinata non solo a causa dei tagli prodotti dal governo centrale, si sono sommati gravi ritardi nei pagamenti da parte degli Enti appaltanti che di fatto stanno determinando un vero e proprio collasso della cooperazione sociale».
Orvieto nel caos L’assemblea ha chiesto pertanto alla Fp-Cgil regionale e alla Cgil regionale «l’attivazione di un percorso da condividere con Cisl e Uil per richiedere alla giunta regionale e in particolare all’assessore Casciari un tavolo di confronto urgente sulle problematiche del settore, sull’attuazione del piano di rientro dei Comuni della Provincia di Terni e sulla drammatica situazione che si sta determinando nel Comune di Orvieto a causa della grave crisi economica che sta interessando quell’ente».
Salvaguardare il welfare E’ stata chiesta inoltre «la salvaguardia dei livelli di welfare locale, a partire dalla difesa dei servizi socio sanitari pubblici, evidenziando la necessità di mantenere l’utilizzo della cooperazione sociale per quei servizi che hanno garantito nella nostra regione qualità e innovazione, rigettando l’ipotesi di utilizzo della cooperazione nelle esternalizzazioni dei servizi pubblici solo come manodopera a basso costo».
Garantire i diritti L’assemblea, denunciando inoltre «gravi ritardi nell’applicazione del contratto nazionale di lavoro giornalistico e inadempienze relative al rispetto delle relazioni sindacali in alcune cooperative», ha chiesto alle segreterie  territoriali di «attivare tutte quelle iniziative di confronto e/o vertenziali utili a garantire il rispetto dei diritti e delle professionalità, nonché a monitorare lo stato dei livelli occupazionali ponendo la necessità della salvaguardia degli attuali posti di lavoro».

Libia: più che l'Odissea, è l'Iliade

Non intendiamo scherzare, anzi: laggiù è tutto così terribilmente serio che che, prima dei missili, occorreva esplorare altre vie. Una "non guerra" che forse diventerà una "non pace".


Fonte: Famiglia Cristiana


La chiamano Odissea all’alba invece di Desert Storm o consimili sigle del passato, che immediatamente fanno pensare a una guerra. Questa, continuano a dirci, guerra non è. Curioso linguaggio, comunque. Il richiamo all’alba dev’essere legato al fatto che i jet bombardano di notte e, appena fa giorno, i piloti se ne tornano a dormire. Trattandosi poi di un’azione che comporta contro Gheddafi una specie di assedio, più che l’Odissea valeva l’Iliade. A meno che il richiamo a Ulisse non alluda a una riedizione del cavallo di Troia. Clicchiamo su Wikileaks, forse hanno già messaggi top secret.

venerdì 25 marzo 2011

Domani la raccolta di viveri nei supermercati dell'Alta Valle del Tevere organizzata dall'associazione Altotevere senza frontiere Onlus

Tutto è pronto per la grande raccolta viveri nei supermercati dell'Alta Valle del Tevere che l'associazione "Altotevere senza frontiere Onlus" organizza per sabato 26 marzo.
La raccolta andrà a sostenere il campo di Raduloc, gestito dalla Caritas Umbria: una casa che accoglie 40 bambini orfani o abbandonati, alcuni adulti con gravi patologie psichiatriche e si prende cura di oltre 300 famiglie povere adottate a distanza dall'Italia.   Si tratta di una realtà sorta in seguito alla terribile guerra del 1999, di cui ancor oggi la gente porta evidenti ferite. 



I volontari saranno presenti nei principali supermercati (tranne le Coop) di Città di Castello (Eurospin, Famila, L'Abbondanza, A&O, Cross, Risparmio casa), Lama (A&O), San Giustino (Conad, A&O, Eurospin), Sansepolcro (Famila, Pam, Risparmio casa).
Si raccoglieranno prodotti a lunga conservazione come pasta, riso, scatolame (legumi, pelati, carne, tonno), olio in lattina, prodotti per l'igiene (doccia schiuma, saponette, pannolini). Ad aprile partirà il container direttamente per il Kosovo, dove i volontari saranno di nuovo presenti la prossima estate.
Una data simbolica, quella del 26 marzo, che si colloca ad un anno esatto dalla costituzione di "Altotevere senza frontiere onlus", nata dal gruppo di giovani volontari del progetto "Altotevere per l'Abruzzo".  
Chiunque desideri avere maggiori informazioni o partecipare come volontario alla raccolta, può scrivere una mail  all'indirizzo info@altoteveresenzafrontiere.it , contattare i numeri 320 4223695, 329 2055680, visitare il sito www.altoteveresenzafrontiere.it o il gruppo Facebook dell'associazione. 

Cordiali saluti,
I volontari di Altotevere senza frontiere

Associazione "Altotevere senza frontiere Onlus"
Sede legale: Viale Alcide de Gasperi, 1 - 06012 Città di Castello (PG)
tel. 320-4223695, 329-2055680
www.altoteveresenzafrontiere.it - Gruppo Facebook

per coloro che vogliono, desiderano, amano il nucleare

Viaggio nel sarcofago di Chernobyl, dove si potrà tornare a vivere tra 600 anni

«Non sarà un’altra Chernobyl» ripete a ogni novità il governo giapponese. «Nessun rischio Chernobyl» assicura l’agenzia per la sicurezza nucleare. «Niente a che vedere con Chernobyl» giura il ministro francese dell’industria, che teme un insorgere del malcontento verso le sue centrali. Chernobyl, l’unico incidente nucleare della storia di livello 7 – il massimo –, è l’inevitabile riferimento di queste ore, la pietra radioattiva di paragone che terrorizza al solo nominarla.

Il sarcofago
Chernobyl è questo immane e stremato sarcofago cento metri davanti a noi. Sembra reggersi solo grazie al sostegno metallico, simile alla rampa di un missile, con il quale l’hanno puntellato nel 2006. L’uomo che ci ha traghettato sin qui, 150 chilometri a nord di Kiev, si chiama Maksim, e di mestiere guida turisti estremi nella «zona di esclusione», il cerchio contaminato – 30 chilometri di raggio – nel quale non si potrà tornare a vivere prima di 600 anni. «Potete scattare una foto da qui, ma non un passo in più e sbrigatevi perché fra due minuti dobbiamo andare». Per aumentare l’autorevolezza dell’ordine, Maksim estrae il contatore geiger dalla tasca e lo accende. Nella base di partenza del viaggio – il vecchio abitato di Chernobyl, 18 chilometri più a sud – i microroentgen segnalati erano 12; qui superano in un amen i 500. «Nessun problema – ripete Maksim con voce platealmente calma – ma non oltre questo punto, e non più di due minuti».
Questo punto, fuori dal cancello della centrale, è la stele eretta in memoria dei primi soccorritori, i pompieri e gli operai andati a cuocersi di radiazioni per spegnere l’incendio, e morti nelle settimane successive. L’iscrizione, opportunamente, è anche in inglese: «Agli uomini che salvarono il mondo dal disastro nucleare».

I bilanci
Qualche cifra è indispensabile per capire il loro sacrificio. Mille microroentgen l’ora fanno un milliroentgen, mille milliroentgen fanno un roentgen, un’esposizione a 500 roentgen uccide in cinque ore. Nella notte del 26 aprile 1986, in seguito a un test di sicurezza concepito male ed eseguito peggio, il reattore numero 4 esplose, scoperchiando con la forza del vapore il cilindro di contenimento – e il solaio pesava duemila tonnellate – e disperdendo nell’aria enormi quantità di materiale radioattivo, alimentate dal successivo incendio della grafite contenuta nel nucleo. Per spegnere le fiamme i pompieri salirono sul tetto della centrale, dove i roentgen erano 20mila. «Non più di due minuti» si raccomanda Maksim oggi, 25 anni dopo, per una quantità di raggi gamma milioni di volte inferiore alla notte maledetta. Consapevoli che anche pochi secondi li avrebbero condannati, i pompieri vinsero l’incendio evitando la fusione, e la temuta esplosione nucleare, prima di andare a morire in un ospedale di Mosca.
Le polemiche sul nucleare civile rendono delicato il bilancio della tragedia: secondo il rapporto del Chernobyl Forum le vittime dirette furono 68 e 4.000 quelle presunte per tumori e leucemie legate alle radiazioni. I Verdi aumentano a 30-60 mila la stima delle vittime presunte, Greenpeace parla di 6 milioni di morti nei settant’anni successivi al disastro. Chiusa dal 2000 e vigilata in attesa che un nuovo sarcofago sostituisca l’attuale, questa centrale resterà per sempre nella memoria del mondo come Chernobyl, dal nome del paese più vicino ai tempi in cui la sua costruzione venne deliberata.
Nel 1970, però, a tre chilometri da qui venne completata Pripjat, una cittadina di 52mila abitanti destinata in gran parte ai lavoratori della centrale e alle loro famiglie. Pripjat venne evacuata 36 ore dopo l’incidente. «Pochi giorni e tornate a casa», così i militari rassicurarono donne costernate e bambini impauriti. Venticinque anni dopo, Pripjat resta la ghost town più estesa, impressionante, a suo modo suggestiva e certamente triste del pianeta. Visitarla è un’esperienza forte, possibile solo con una guida che – come in un campo minato – conosca l’ubicazione delle sacche radioattive. Prima del ponte che introduce alla città, per esempio, c’è la foresta rossa, un tratto di bosco nel quale il cesio 137 resiste, dipingendo gli alberi di un’assurda bellezza. «Pessimo posto per raccogliere funghi», scherza Maksim.

Disgelo
Cinquantaduemila abitanti: più o meno la taglia di Mantova o di Avellino. Ecco, immaginate queste città a noi care abbandonate per 25 anni, immaginatene gli edifici famosi, o quelli frequentati nella piccola quotidianità, le scuole, la palestra, il supermercato, il municipio, tutto deserto. Pripjat si sgretola in un silenzio irreale attraversato dall’acqua del disgelo, un incessante sciogliersi dei tetti ghiacciati – qui in inverno c’è un freddo serio – un furioso colare di rivoli e torrentelli lungo le gronde bucate, le scale pericolanti, gli infissi sbrecciati. Saliamo con la sincera paura di un crollo i sei piani dell’hotel Polissia, l’albergo della città, per scoprire che sull’attico è cresciuta una betulla. Col vento gelido che passa attraverso finestre senza vetri – quasi non esistono più i vetri, a Pripjat – la vista dall’antica sala colazione ti prende alla gola: a sud c’è il reattore, a est il fiume, a nord la foresta e tutto attorno la città morta, i condomini alti e magri dell’architettura sovietica. La ruota del lunapark allestito per la festa del Primo maggio 1986, e ovviamente mai più rimossa, è il simbolo più sfruttato – persino in un videogioco – di Pripjat.

Animali
Fulminea, una lepre attraversa il nostro campo visivo. Maksim racconta un paradosso: vietata agli uomini, la «zona» è diventata un’oasi ecologica, e oltre ai microroentgen chi la percorre deve guardarsi da orsi e lupi. La visita dura due ore, si resta lontani dal cimitero dove vennero sepolte le scorie di grafite, il luogo più contaminato d’Europa; negli edifici in cui entriamo la natura sta completando la sua rivincita, con alberi che penetrano dalle finestre e il pericoloso muschio – trattiene le radiazioni – che pare moquette stesa sull’umidità.
«In realtà nella zona vivono ancora 200 vecchi – rivela Maksim –. Sono malati venuti a morire a casa, nessuno se l’è sentita di cacciarli. Due volte alla settimana un camion porta le provviste, una volta al mese un medico fa il giro per visitarli. Quattro abitano a Pripjat, ma dai turisti non si fanno vedere». Lasciamo la città morta con la sensazione di essere osservati.

Paolo Condò,
il corriere

da noi anni, da loro giorni: la ricostruzione nipponica

Giappone: sei giorni dopo la scossa
già ricostruita un'autostrada

Centomila i soldati dell'Esercito di autodifesa
impegnati nelle zone devastate dal sisma e dallo tsunami

OSAKA - Sei giorni soltanto. E poi si sono riposati. Tanto ci hanno messo gli ingegneri della società di gestione Nexco per ripristinare un tratto dell'autostrada a nord di Tokyo devastata dal terremoto dell'11 marzo.

Più che devastata: una foto scattata da una squadra di pronto intervento, a poche ore dal sisma di 9 gradi Richter, mostra l'asfalto disarticolato e sconnesso, con voragini di alcuni metri: uno scenario adatto a un film del genere catastrofico, tipo Godzilla. In altri Paesi, forse, si sarebbe immaginata una deviazione o comunque un lungo periodo di sbancamento e ripristino prima di rivedere le auto sfrecciare a 120 chilometri l'ora. Non in Giappone. Non in un Paese il cui premier, dopo la doppia catastrofe terremoto-tsunami, ha subito dichiarato: «Ricostruiremo il nostro Paese dalle fondamenta».


L'autostrada record

A giudicare da quanto fatto nella regione del Kanto, vicino a Naka, l'opera è già iniziata. Basta guardare la foto scattata il 17 marzo alle ore 17, esattamente sei giorni più tardi rispetto alla prima immagine: l'asfalto appare perfetto, come se non fosse successo nulla. Merito dell'ingegner Makoto Ishikawa, capace di reagire al disastro senza esitazioni e di risolvere in un tempo davvero breve un guaio che avrebbe provocato seri intoppi alla circolazione nell'area più popolosa del Giappone (42 milioni di abitanti). Questo di Naka, comunque, non è l'unico tratto (150 metri) riaperto al traffico in pochissimo. La Nexco, sul suo sito, spiega che su 20 differenti strade e autostrade, circa 813 chilometri su 870 danneggiati dal terremoto sono già stati riaperti al pubblico, per quanto con interventi d'emergenza e «salti» di corsia. La Nexco ha dovuto ripetere le riparazioni anche più volte, perché le scosse di assestamento hanno danneggiato l'asfalto nuovamente in molti punti, anche se certo non con gli stessi effetti del grande terremoto di due settimane fa. «Chiediamo scusa - avvisa la Nexco - se non tutte le aree di servizio sono state riaperte».


Clicca per ingrandire
Per quanto immenso può apparire oggi il compito, rimettere in moto il Paese è un imperativo sociale. Qualche dato, tanto per comprendere quanto sarà comunque lunga e onerosa la ricostruzione. La stima del governo, fa sapere il segretario di gabinetto Yukio Edano, parla di 25 mila miliardi di yen - circa 220 miliardi di euro - in danni alle infrastrutture, agli impianti industriali, agli edifici pubblici e privati. Come organizzare i lavori, le priorità? Edano ha detto che l'esecutivo sta valutando la possibilità di costituire un'«agenzia per la ricostruzione» simile a quella che dopo la Seconda guerra mondiale si era presa la briga di far ripartire un Paese raso al suolo, con due città, Hiroshima e Nagasaki, annichilite dalle bombe atomiche e molte altre, Tokyo compresa, semi distrutte dai bombardamenti americani. Stiamo pensando a una «sorta di sistema o organizzazione» che possa gestire gli stanziamenti per il dopo terremoto, ha spiegato Edano. Questo comunque vale per il futuro, un futuro che potrà durare anche cinque anni: tanto ci vorrà, secondo le stime della Banca mondiale, per rimettere in piedi tutto.

Nel frattempo, centomila soldati dell'Esercito di autodifesa sono tuttora impegnati nelle regioni colpite dal disastro: insieme a migliaia di volontari hanno iniziato a sgomberare le macerie, ripulire i porti e le strade. C'è da aiutare e nutrire 250 mila sfollati senza più casa né - per ora - lavoro. A questo proposito, il governo di Tokyo si aspetta una contrazione della crescita economica nazionale fino allo 0,5% nel prossimo anno fiscale, che in Giappone inizia il primo aprile. «Dobbiamo tenere in mente che a causa del terremoto la produzione potrà rallentare in molte zone per un cospicuo periodo di tempo», ha chiarito l'altro giorno il ministro delle Politiche economiche Kaoru Yosano. Meglio rimboccarsi le maniche.

Paolo Salom
corriere.it

giovedì 24 marzo 2011

SE ROMANO E I SUOI "RESPONSABILI" SONO RESPONSABILI, NON OSO PENSARE COME SIANO GLI "IRRESPONSABILI"

Un premier sotto ricatto

UN PRESIDENTE del Consiglio sotto ricatto. Un governo a responsabilità e a sovranità limitata. Da qualunque parte la si osservi, l'Italia offre di sé un'immagine da fine Impero. Sul palcoscenico vediamo la tragedia della guerra e i grandi orrori della dittatura gheddafiana. Nel retropalco, al riparo dagli sguardi di un'opinione pubblica confusa e disinformata, non vediamo la commedia della destra e i piccoli orrori della "democratura" berlusconiana. La "promozione" di Saverio Romano a ministro è l'ultimo insulto al buon senso politico e alla dignità istituzionale. L'emendamento sulla prescrizione breve per gli incensurati è l'ennesimo schiaffo allo Stato di diritto.

Ciò che è accaduto ieri al Quirinale è la prova, insieme, della debolezza e della sfrontatezza del presidente del Consiglio. Berlusconi paga a caro prezzo la vergognosa "campagna acquisti" che in questi mesi gli ha consentito prima di evitare il tracollo al voto di sfiducia del 14 dicembre, poi di puntellare la maggioranza dopo la fuoriuscita dei futuristi di Gianfranco Fini. La sparuta pattuglia dei cosiddetti "responsabili", assoldati tra le anime perse dei "disponibili" di Transatlantico, gli ha presentato il conto: i nostri voti alla Camera, in cambio di poltrone di governo e di sottogoverno. Esposto a questo ricatto pubblico subito in Parlamento (che si somma ai ricatti privati patiti sul Rubygate) il premier non si è potuto tirare indietro. A costo di imbarcare, al dicastero dell'Agricoltura, un deputato chiacchierato sul quale pende un'inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa.

Non è la prima volta che Berlusconi mette in squadra ministri discutibili, sul piano politico e giudiziario. Volendo, si potrebbe partire da lui stesso. Se si allarga lo sguardo, tornano in mente il plurindagato Cesare Previti ministro della Giustizia, sul quale pose il veto Scalfaro nel maggio 1994, e poi il plurinquisito Aldo Brancher ministro per l'attuazione del federalismo, sul cui pretestuoso "legittimo impedimento" pose il veto Napolitano nel giugno 2010. Ma stavolta c'è di più e di peggio. Da un lato, appunto, c'è la sottomissione a un truce ricatto, che la dice lunga sulla condizione di "minorità" di questa maggioranza: si è dotata di un fragile argine numerico, ma non dispone più di un solido margine politico.

Dall'altro lato, c'è la sfida alle istituzioni. La scorsa settimana, nel primo incontro al Quirinale sul rimpasto, il presidente della Repubblica aveva già segnalato al Cavaliere che l'eventuale proposta di Romano ministro sarebbe stato un problema serio, viste le pesantissime ipotesi di reato che tuttora pendono sul personaggio in questione, per il quale esiste una richiesta di archiviazione ma sul quale il gip non si è ancora pronunciato. Ancora l'altro ieri sera, Napolitano aveva ripetuto a Gianni Letta che se il premier non avesse desistito dal suo intendimento, il Capo dello Stato avrebbe accettato la sua proposta perché non esistono "impedimenti giuridico-formali" tali da giustificare un diniego, ma non avrebbe rinunciato a rendere pubbliche le sue "perplessità politico-istituzionali" sulla nomina.

Nonostante questi avvertimenti, il presidente del Consiglio è andato fino in fondo. E ha costretto il Colle a un atto clamoroso e irrituale: un comunicato ufficiale in cui si auspica un rapido chiarimento sulla posizione processuale del neo-ministro, in relazione alle "gravi imputazioni" che lo riguardano. Un episodio che non ha precedenti. La presunzione di innocenza è una garanzia costitutiva di ogni Stato liberale. Ma che credibilità può avere un governo in cui, dal presidente del Consiglio in giù, è un contino viavai di indagati, inquisiti, processati? E fino a che punto può spingersi il cinismo politico di un premier, che pur di galleggiare fino alla fine della legislatura, è pronto a sottoscrivere qualunque "patto", anche il più scellerato, solo per salvare se stesso e il suo governo?

In questa logica, perversa e irresponsabile, rientra anche la questione della giustizia. Quanto è accaduto tre giorni fa in commissione, alla Camera, è l'ennesimo scandalo della democrazia. L'emendamento al disegno di legge sul processo breve, presentato dal carneade pidiellino Maurizio Paniz (il patetico Cirami di questa sedicesima legislatura) abbatte i tempi della prescrizione per gli incensurati. Più ancora di quelle che l'hanno preceduta, è una norma tagliata a misura per i bisogni processuali del Cavaliere. Grazie a questo trucco legislativo, il processo Mills decadrà prima dell'estate, e il premier sfuggirà ad una probabile condanna. La vergogna non è tanto la "cosa in sé": di misure ad personam il Cavaliere se n'è fatte approvare ben 38, in diciassette anni di avventura politica.

Il vero scandalo è nella menzogna eletta a metodo di governo. Solo tre settimane fa, nel quadro della controffensiva politico-mediatica orchestrata da Berlusconi e dalla Struttura Delta, il governo aveva spacciato al Paese la sua "storica riforma della giustizia". Vendendola agli italiani, al capo dello Stato e all'opposizione come una "svolta di sistema", che per la prima volta non avrebbe contenuto norme atte ad incidere "sui processi in corso". Quindi mai più giustizia ad uso personale, mai più leggi ad personam. Un mossa astuta, propagandata e camuffata con tutti i mezzi del network informativo e televisivo di cui il premier può disporre. Una mossa che aveva accecato i soliti "addetti al dialogo" del Pd. Avevamo scritto che quella non era affatto una "riforma storica", ma una "controriforma incostituzionale". Avevamo scritto che prima di andare a vedere cosa c'era nella mano visibile del Cavaliere, bisognava capire cosa c'era in quella nascosta dietro alla sua schiena. Ora lo sappiamo. È l'ultima conferma che in Italia, finché c'è Berlusconi, la legge non sarà mai uguale per tutti. Noi l'abbiamo capito da un pezzo. Ora speriamo che l'abbiano capito anche le anime belle del centrosinistra.

m.giannini@repubblica.it

IL DOMANI D'ITALIA, ovvero c'è bisogno di una nuova classe dirigente

Torna Il Domani d’Italia
Il foglio di Romolo Murri, profeta della prima Democrazia cristiana, nato nel 1900 per rinnovare la cultura civile e politica dei cattolici, rivive nel 2011 e diventa lo spazio politico e d’opinione dei modem-popolari. Presidente del comitato editoriale, composto da Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Sangiorgi, è Beppe Fioroni.




Il magazine si propone come contributo “non più eclettico e disordinato, dei democratici che vogliano e sappiano unire nel loro impegno politico il valore della laicità e il senso dell’ispirazione cristiana (…), pronti al compito di restituire un soffio ideale alla battaglia politica”. Uno spazio per ridare voce ad una serie di sensibilità che sono state tagliate fuori e sono rimaste ai margini dei processi decisionali. Ma anche un avvertimento chiaro alla bocciofila: o si ritorna ad un Pd nello schema originario veltroniano oppure si rischia l’uscita in massa dei moderati.
In realtà sono molti ad avere abbandonato già la nave. Il malcontento tra i popolari è diffuso: la fuga è verso gruppi misti, Terzo polo, liste civiche. Fioroni, per ora, rimane dentro, ma la sua linea politica e la prospettiva sono chiare. Con l’editoriale uscito sul Domani d’Italia, il leader dei popolari-democratici descrive la vera sfida del Pd: lanciare una nuova generazione, perché “il rinnovamento non è la cosmesi della politica di ieri”. Berlusconi e la Seconda repubblica sono al capolinea. Il Pd, invece, è ancorato a tatticismi e false partenze. E allora la domanda nasce spontanea: il Pd può “pensare che il domani, dopo Berlusconi, sia rappresentato da un centrosinistra che invece ha le stesse facce di ieri? O non è forse arrivata l’ora di avere coraggio?”.
Il messaggio è chiaro: non può essere Bersani ad interpretare il dopo Berlusconi né a sconfiggerlo. C’è bisogno di una classe dirigente nuova. L’obiettivo di Fioroni appare nobile e condivisibile: aprire la strada ai Renzi e agli Zingaretti, seppur sottolineando che il Pd deve essere “il primo nel quale donne e uomini che vivono del proprio lavoro poi possano anche dedicarsi alla politica”. Dietro a questa sfida c’è una scommessa che appare paradossale: rafforzare la sua componente, aprendo il passo allarottamazione dei leader più tradizionali (da Veltroni a Bersani, dalla Bindi a D’Alema).
Intanto, le reazioni degli allineati non si fanno attendere. Il neobocciofilo Franceschini esclude qualsiasi ricambio di leadership perché sarebbe una scelta autolesionista (per lui evidentemente). Più diplomatica miss frangetta Serracchiani: ha ragione Fioroni sulla necessità di un rinnovamento ma la questione non è legata all’antiberlusconismo e alla linea politica del Pd. Insomma una botta ai modem e una alla bocciofila a garanzia della prossima candidatura. E Veltroni? L’ex segretario, come sempre, guarda solo a se stesso: appoggia la rappresaglia popolare per poter tornare alla guida del Pd. Ma guai se si parla di ricambio generazionale! La sfida è aperta. Non è escluso che il tema venga affrontato nella direzione nazionale del 28 marzo… ”Se non ora, quando?”…

mercoledì 23 marzo 2011

ROMANO NUOVO MINISTRO DELL'AGRICOLTURA. IL GOVERNO IMBARCA UN ALTRO INQUISITO. QUASI CHE QUELLA DI ESSERE INDAGATI FOSSE UNA CONDICIO SINE QUA NON...

Romano ministro. Ma Napolitano chiede chiarimenti sulla sua posizione Romano è ministro dell’Agricoltura. Bondi ha confermato le proprie dimissioni e alle 12.30 il premier è salito al Quirinale per assegnare il ministero della Cultura a Galan e quello dell’Agricoltura a Saverio Romano. Berlusconi ha così incassato il sì al conflitto di attribuzione in Giunta delle Autorizzazioni da parte dei due deputati responsabili (leggi l’articolo). Ma sulla nomina Giorgio Napolitano ha espresso forti dubbi. Prima a Berlusconi, poi con un comunicato ufficiale del Colle in cui ritiene di dover “assumere informazioni” sul procedimento a carico di Romano.

“Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dal momento in cui gli è stata prospettata la nomina dell’onorevole Romano a ministro dell’Agricoltura, ha ritenuto necessario assumere informazioni sullo stato del procedimento a suo carico per gravi imputazioni”, si legge nella nota. “Essendo risultato che il giudice delle indagini preliminari non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Palermo (leggi l’articolo), e che sono previste sue decisioni nelle prossime settimane, il Capo dello Stato ha espresso riserve sulla ipotesi di nomina dal punto di vista dell’opportunita’ politico-istituzionale”, prosegue la nota. “A seguito della odierna formalizzazione della proposta da parte del Presidente del consiglio, il Presidente della Repubblica ha proceduto alla nomina non ravvisando impedimenti giuridico-formali che ne giustificassero un diniego. Egli ha in pari tempo auspicato – si legge ancora – che gli sviluppi del procedimento chiariscano al più presto l’effettiva posizione del ministro”.

Per il ministro Ignazio La Russa il problema di Romano è legato solo a lungaggini nell’archiviazione dei procedimenti in cui è coinvolto. Non so se il presidente ha espresso delle perplessità. So che Romano, assolutamente incensurato, ha solo una pendenza in corso, cioè una richiesta di archiviazione di un avviso di garanzia”, ha detto La Russa. ”La Costituzione dice che uno è innocente fino alla Cassazione, ma doversi difendere – ha proseguito La Russa – dalle lungaggini di una richiesta di archiviazione che ancora non è arrivata, mi pare veramente pretendere troppo da chiunque”.

Secondo Italo Bocchino, quando accaduto dimostra che “Berlusconi non è più in grado di agire liberamente nella sua attività di governo”, ha detto il vicepresidente di Futuro e Libertà. Il premier “ha, infatti, dovuto sottostare al diktat dei Responsabili e nominare ministro Saverio Romano nonostante le note e annunciate perplessità del Quirinale. L’ha dovuto fare per assicurarsi il voto dei ‘disponibilì in Giunta per le autorizzazioni a procedere su questioni che sono del tutto personali. E’ ormai evidente che siamo in una situazione senza precedenti che mette a repentaglio la libertà di azione del presidente del Consiglio”.

ilfattoquotidiano

martedì 22 marzo 2011

Missili per Gheddafi, prescrizione breve per Silvio

Il Governo va avanti per B. Oggi la prescrizione breve, domani il nucleare La guerra e il “dolore” di Berlusconi sulla sorte dell’amico Gheddafi non distolgono il resto del governo dal guardare alla soluzione dei problemi del premier. La commissione Giustizia della Camera approva la prescrizione più corta per gli incensurati all’interno del provvedimento sul processo breve, che andrà in aula lunedì prossimo. Risultato: secondo i calcoli di Stefano Ceccanti del Pd, il processo per la corruzione giudiziaria dell’avvocato inglese David Mills, che oggi andrebbe in prescrizione nel febbraio 2012, si prescriverà, invece, il prossimo maggio. Insomma, se il 28 marzo la Camera approverà voterà la nuova legge a Milano ci sarà il tempo per un’unica udienza.

Un bel sollievo per il premier che, dopo aver visto riconosciuto in Cassazione la responsabilità di Mills come corrotto, temeva di essere condannato quantomeno in primo grado. Ma questo non è l’unico colpo che la maggioranza sta per mettere a segno. Le grandi manovre proseguono anche sul nucleare. Domani, infatti, il consiglio dei ministri si troverà sul tavolo un decreto legislativo bollente: il via alla localizzazione dei siti su cui costruire le future centrali nucleari italiane.

Si tratta di un provvedimento dove sono elencati una serie di siti, più di uno per Regione, dove un’apposita commissione del ministero dello Sviluppo Economico ha dato il proprio parere positivo per la costruzione di nuove centrali. L’elenco, secondo la legge, dovrebbe essere discusso con le Regioni, ma si tratta comunque di un parere consultivo. Di fatto, una volta approvato, il decreto rappresenterebbe il primo passo concreto verso la costruzione di nuove centrali in Italia, ma le polemiche dei giorni scorsi e soprattutto dei sondaggi devastanti (l’89% degli italiani preferisce le energie rinnovabili e voterebbe a favore del referendum) starebbero inducendo Silvio Berlusconi ad un passo indietro, una moratoria di un anno per aprire una “riflessione” più ampia sulle scelte da fare. E prendere tempo anche per abbassare l’attenzione sul tema in vista del referendum di giugno. “Delle due l’una”, dice Antonio Di Pietro. “O il governo cancella la norma che consente la costruzione di centrali nucleari sul territorio italiano o la mantiene. Ma la moratoria di un anno è un chiaro raggiro che serve a scavallare la data del referendum”, aggiunge. “Insomma, l’unico vero scopo del governo è quello di fermare il temuto verdetto dei cittadini”.

La moratoria sul nucleare, in verità, serve al governo per prendere tempo anche su un altro fronte. Un problema di politica economica e di accordo internazionali. Di mezzo ci sono sempre i francesi, con cui nelle ultime ore i rapporti si sono fatti più tesi per via delle continue prese di distanza anche dello stesso Cavaliere sulla campagna di Libia. La moratoria, in sostanza, serve anche a raffreddare (ma non a chiudere) quegli accordi siglati dall’Eni (ma non solo) per la fornitura di energia elettrica a prezzi di favore in cambio di una futura utilizzazione della tecnologia d’oltralpe nella costruzione delle centrali nucleari italiane.

Al Governo la cautela, in queste ore, sembra comunque la parola d’ordine. Soprattutto dopo che dalla commissione Affari Costituzionali del Senato è arrivato un segnale politico inequivocabile su quanto il tema del nucleare sarebbe devastante per la coesione della stessa maggioranza. Ieri pomeriggio, infatti, la commissione non ha espresso il proprio parere sul decreto legislativo sulla localizzazione dei siti, come richiesto dalla commissione Industria, e la votazione finale sul parere positivo del relatore del Pdl è finita 9 a 9, dunque è stata respinta. Un voto che ha convinto il ministro Paolo Romani a dare per scontata la scelta per la moratoria in consiglio dei ministri di domani mattina, perché i sondaggi (e il voto ballerino di alcuni parlamentari di maggioranza) spaventano molto di più di quanto avvenuto in Giappone.

Nessuna “moratoria” invece, come abbiamo visto, sul fronte della giustizia “ad personam”. I processi avanzano, le aule di tribunali reclamano la presenza di Berlusconi e si avvicina il sei aprile, quando a Milano inizierà il processo al premier per concussione e prostituzione minorile in relazione al caso Ruby. Tra escort, modelle, “bambole” di via Olgettina e varia umanità finita nelle carte, sfilerà davanti ai giudici il Presidente del Consiglio. O almeno dovrebbe. Ma nella norma sul processo breve, oggi discussa in commissione, avanza la prescrizione “ad hoc”. Per quanto rivista e corretta dalla maggioranza, ha ancora quel “trucco modesto”, come lo definisce Pierluigi Mantini dell’Udc, di “un favore” al premier. La norma contiene una distinzione “irragionevole” si tratta di un piccolo, preciso, chirurgico, beneficio per “un processo del presidente del Consiglio”: riconosce dei privilegi agli incensurati, ai signori con più di 65 anni. Non solo, ma le disposizioni non si applicano ai procedimenti per cui è stata già pronunciata sentenza di primo grado. Insomma, per dirla con Di Pietro, “basta tirarla alla lunga per non farsi processare”.

Il processo Mills, che vede coinvolto Berlusconi, secondo i calcoli della maggioranza finirebbe in prescrizione. Per un calcolo semplicissimo: attualmente la massima durata è pari alla pena massima prevista per il reato e viene aumentato di un quarto per effetto delle interruzioni. Per il reato di corruzione in atti giudiziari la prescrizione è fissata in dieci anni: la pena massima è infatti di otto anni. Il relatore dell’emendamento, Maurizio Paniz, sostiene che la norma non possa essere applicata ai processi già in corso, ma Luigi Li Gotti della commissione giustizia in Senato spiega che in realtà “chi dice una cosa del genere è quanto meno un ignorante visto che la prescrizione è una norma cosiddetta sostanziale di diritto penale e non di procedura. E quindi, per regola generale codicistica, all’imputato si applica sempre, nella successione di legge nel tempo, quella più favorevole. E dato che non è credibile che si tratti di ignoranza, questa non può che essere malafede”. Solo di qualche deputato della maggioranza che agisce sicuramente a insaputa del premier. Il cinque marzo scorso Berlusconi aveva garantito: “La prescrizione breve sarà ritirata”. Oggi intanto è stata approvata in commissione.

di Sara Nicoli e Davide Vecchi
per il Fatto