martedì 15 marzo 2011

GARIBALDI: La ritirata da Roma (passando per i nostri luoghi)

di
Blasco Mucci


Quando i francesi il 29 e 30 giugno 1849 sferrarono l’attacco finale, sfondando le fortificazioni, Garibaldi riuniva i suoi uomini per l’estrema difesa e in città si correva alle barricate.
Ma l’Assemblea per non sottoporre Roma ad inutili distruzioni decretò la fine della resistenza.
Garibaldi non accettò la resa, e con un contingente d’armati iniziò la ritirata verso Venezia, portando con sé la moglie Anita, incinta e malata. Mazzini riprese la via dell’esilio.

Il 3 luglio 1849, mentre le truppe francesi entravano in Roma, dal balcone del Campidoglio era proclamata la Costituzione della Repubblica Romana.
Si trattava di una “uscita dalla città”, con quante forze combattenti avessero voluto seguirlo verso quella parte degli Stati della Chiesa non occupati dalle truppe francesi. Lo scopo dichiarato sarebbe stato “portare l’insurrezione nelle province”.

A tal fine, la mattina del 2 luglio Garibaldi tenne, in Piazza San Pietro, il famosissimo discorso: “Io esco da Roma: chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me. Non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà”. Dette appuntamento per le 18,00 in Piazza San Giovanni, trovò circa 4000 armati con ottocento cavalli e un cannone e, alle 20,00, uscì dalla città.
L’Oudinot aveva almeno due ottime ragioni per permettere tal esodo armato. Anzitutto esso liberava la città da tutti gli “esagitati”, della cui reazione alla prossima occupazione militare era sostanzialmente imprevedibile, e inoltre lo esonerava da ogni incombenza rispetto al trattamento degli eventuali prigionieri. I volontari, in ritirata attraverso i territori appena rioccupati dagli austriaci del feld-maresciallo Costantino D’Aspre, avrebbero subito da loro – che restavano, dopotutto, dei nemici “ereditari” della Francia – le vendette e le brutalità.
È perfino possibile immaginare che Napoleone ed il suo sottoposto, nella grande ipocrisia che caratterizzò l’intera loro azione in quei mesi, abbiano realmente sperato che il massacro che il D’Aspre avrebbe fatto dei volontari, poteva far dimenticare le gravi colpe che la Francia si era assunte nei confronti della causa nazionale italiana. Un calcolo che non deve apparire del tutto mal riuscito, se si 8 considera il generale favore con cui nel 1859 fu accolta, faute de mieux, l’alleanza del Cavour con l’ormai imperatore Napoleone III.

Uscito dalla città la sera del 2 luglio 1849 Garibaldi si diresse verso sud-est, sulla Casilina, manifestando di recarsi a Valmontone ma per strada girò a nord, verso Tivoli, arrivando a Montrotondo il 4 luglio.
Monterotondo era considerata la porta d’accesso al Lazio (Rieti era parte dell’Umbria) e giunse, con un largo giro, a Terni l’8 luglio.
Qui raccolse altri 900 volontari guidati dal colonnello Hugh Forbes, un inglese sposato con una nobile senese, che viaggiava assieme al figlio adolescente. Da Terni mosse verso nord, sulla strada di Perugia, ma si fermò a mezza strada, a Todi, da dove svoltò a sinistra, su Orvieto.
Di lì, prese la vecchia strada per Chiusi e, ancora una volta, si fermò a mezza strada, a Città della Pieve ai confini fra Stato della Chiesa e Granducato di Toscana. Il 17 luglio era a Cetona e di lì entrò in Val di Chiana. Prese a percorrerla sul lato occidentale, portandosi a Montepulciano, il 20 luglio, dove trovò le porte chiuse e la popolazione in armi.
Passò allora sul lato orientale e ricevette ben altra accoglienza, il 21 luglio, a Castiglion Fiorentino. Dopo quasi tre settimane di marce forzate, la colonna si era ridotta a circa 2000 uomini, causa le molte diserzioni, del tutto normali, d’altronde, in un esercito volontario, così lontano dalla base di partenza ed in territorio ostile; oltre al Forbes, infatti, nessun gruppo di volontari si era unito alla marcia. La controprova definitiva venne la sera del 23, quando Garibaldi si presentò davanti ad Arezzo, che trovò chiusa e decisa a tentare una difesa. La città era, in realtà, difesa da una guarnigione assai minuta, limitata com'era a 90 austriaci e 260 borghesi della guardia nazionale.
Ma, come dimostrato dai fatti di Montepulciano, Garibaldi non aveva nessuna intenzione di assaltare una città. La sua era una spedizione di guerriglia ed intendeva sollevare le popolazioni, non certo combatterle. Si limitò, quindi, ad accamparsi sotto le mura, sulla collina di Santa Maria, ed a condurre, domenica 22, un’oziosa trattativa con il Guadagnoli, rappresentante degli aretini.
A questo punto le intenzioni di Garibaldi dovettero farsi un poco più chiare. Egli era uscito da Roma dichiarando di voler “portare l’insurrezione nelle province” dello Stato della Chiesa. Ma, a questo punto del tragitto, dovette apparirgli ormai chiara la velleitarietà della speranza di sollevare le popolazioni. Opposto a forze tanto imponenti, e di fronte all’evidente fallimento dell’ipotesi guerrigliera, Garibaldi passò al piano B e stabilì di raggiungere un porto dell’ Adriatico, per imbarcarsi e raggiungere Venezia assediata.
Ciò non toglie che i suoi avversari l’avessero preso molto sul serio. La sua marcia in Toscana metteva direttamente in causa il feld-maresciallo Costantino D’Aspre, che si trovava quale comandante delle truppe d’occupazione in Toscana e dell’esercito toscano, in via di riorganizzazione. L’anno precedente, nelle brughiere dell’allora provincia di Como egli aveva imparato a temere il guerrigliero e, avvertito della marcia in corso, scriveva: 9 Tutta l’Italia centrale sarebbe caduta nelle mani di un avventuriero militare, al quale il proprio nome e l’influenza avrebbe dato i mezzi per una nuova insurrezione nel disgraziato Paese. Non risparmiò, quindi, le forze e dedicò, alla caccia dei circa 2000 superstiti della colonna uscita da Roma, la concentrazione di una intera armata che, al completo, contava almeno 25000 fanti, 30 cannoni e 500 cavalli.
L’indomani Garibaldi fu avvisato dell’avvicinarsi di una colonna inviata dal D’Aspre da Firenze e comandò, al tramonto, un’immediata ripartenza. Bivaccò la notte sulla piccola sella dello Scopetone, sopra Arezzo. Di lì si mosse veloce, arrivando, già il 24 a Citerna dove passarono la notte.
Qui fu informato che anche Città di Castello aveva chiuso le porte e, in soprannumero, una colonna di circa 1200 austriaci proveniente da Perugina aveva già raggiunto Umbertide (allora Fratta), circa 20 km. più a sud. Il 25, con la colonna dei volontari sempre ferma a Citerna, giunse notizia di una seconda colonna di 2000 austriaci, in marcia da Arezzo. Il 26 questi occupano Monterchi, giusto di fronte a Citerna, ove avvenne un piccolo scontro fra le avanguardie. Il comandante austriaco, tuttavia, non cercò ulteriori contatti e, la sera del 26, i volontari scesero verso il Tevere, per passare oltre verso il passo di Bocca Trabaria, imboccando la strada di Urbino, verso l’Adriatico.
La popolazione, comunque, li accolse festosamente, prima Ciceruacchio a Sansepolcro, eppoi lo stesso Garibaldi nel vicino villaggio di San Giustino, ove la colonna giunse il 27, poté rifocillarsi e riposare prima di aggredire il passo. Da notare che Sansepolcro faceva parte del Granducato di Toscana, San Giustino dello Stato della Chiesa.
A sera, avvicinandosi il contingente austriaco che da Monterchi aveva fatto il giro per Sansepolcro, i volontari cominciarono la risalita del passo, raggiunto verso la mezzanotte, ove bivaccarono. Poi proseguirono oltre, sulla strada di Urbino. Il 29 erano a Sant’Angelo in Vado. Lì dovettero affrontare un combattimento e, ancora una volta, Garibaldi cambiò percorso, non raggiunse Urbino e girò verso nord, raggiungendo Macerata Feltria.
Di lì tentò di passare l’Appennino, ma trovò ancora resistenza e si rifugiò, il 31 luglio, nel territorio neutrale della Repubblica di San Marino che concesse loro asilo. Il locale governo trattò con gli Austriaci un’amnistia per i volontari, contro il disarmo. Ma non v’era molto da fidarsi delle ordinanze del D’Aspre e del Radetzky che non offrirono alcuna preliminare garanzia come dimostrava il comportamento dei comandanti le colonne lanciate all’inseguimento, i quali, a più riprese, avevano fatto fucilare i volontari catturati o dispersi (avvenne sicuramente sulla salita dello Scopetone e della Bocca Trabaria).
Garibaldi probabilmente a ragione, non si fidò e, con circa un quarto dei mille volontari con i quali era giunto a San Marino, dopo la mezzanotte del 31 luglio, uscì verso la foce del Rubicone.
Qui, giunto verso le 20.30 in località Gatteo, entrò in Cesenatico, dove disarmò i gendarmi un piccolo presidio austriaco e si impossessò di tredici barche da pesca, sulle quali, la mattina del 3 agosto, s’imbarcò alla volta di Venezia. La flottiglia navigò lungo tutta la Romagna, sino a poco sopra Comacchio quando fu intercettato da una squadra austriaca, composta dal 10 brigantino Oreste, e due golette.
Il cannoneggiamento successivo, costrinse alla resa otto barche, con 151 volontari e 11 ufficiali, mentre la barca di Garibaldi si arenava, tra Volano e Migliavacca, seguita dalle superstiti quattro. Da lì i superstiti si divisero in piccoli gruppi. Gli uomini del D’Aspre, a cominciare dal generale Carlo Gorzkowski, non si risparmiarono neppure in quest’ultima fase e ordinarono di fucilare tutti i fuggiaschi che riuscivano a catturare, come già avevano operato con il capitano romagnolo Basilio Bellotti e altri, il 29 luglio.
Accadde così che fossero fucilati, il 10 agosto, Ciceruacchio con il figlio Lorenzo, appena tredicenne e il sacerdote Stefano Ramorino (insieme ad altri cinque), nonché Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, catturati a Cento, portati prigionieri a Bologna e lì fucilati l’8 agosto.
Nel complesso è possibile affermare che il feld-maresciallo diede un contributo determinante alla composizione del più nobile martirologio del Risorgimento italiano.

Garibaldi, invece, si attardò nelle zone paludose, rallentato dalla moglie Anita, incinta ed ammalata. Insieme al capitano Giovanni Battista Culiolo detto Leggero, furono soccorsi da un paesano, che li ricoverò in una capanna.
Culiolo ebbe poi l’incredibile fortuna di incontrare, nei pressi, Giovanni Nino Bonnet, fratello di Gaetano, un volontario di Comacchio che aveva combattuto a Villa Corsini e lui stesso già conoscente di Garibaldi.
Cominciò, così, la “trafila”, la fuga, durata 14 giorni, che permise ai patrioti romagnoli di porre in salvo il generale, sottraendolo alla caccia degli austriaci. Per prima cosa il Bonnet convinse i fuggitivi a muoversi dalla capanna. Partirono alle 11, trascinandosi Anita assai affaticata.
Raggiunti da Filippo Patrignani, essi giunsero alla casa colonica del Podere Cavallina, dove la puerpera fu soccorsa. Di lì mossero alle 15, giungendo, verso le 17, al Podere Zanetto, proprietà della famiglia Patrignani. Verso le 20,30 s’imbarcarono su due battelli da pesca, verso le Valli di Comacchio che attraversarono sino al limite meridionale.
Erano assistiti dai capi e sottocapi delle Valli, ovvero i funzionari pubblici incaricati della tutela delle acque e del controllo di caccia e pesca. Pur essendo tutti funzionari papalini, da buoni romagnoli erano tutti patrioti e sostenitori della Repubblica.
Verso le 13 del 4 agosto i fuggiaschi giunsero a ridosso dell’argine sinistro del Reno, in un luogo chiamato “Chiavica Bedoni” e, per tale ragione, non passato alla storia. Di lì Anita fu trasportata alla vicina fattoria Guiccioli, ove i “partigiani” avevano fatto accorrere il locale medico condotto.
Era, tuttavia, troppo tardi e Anita, la sera stessa, spirò. Nel colmo della sventura, Garibaldi ed il fedele Culiolo non erano, comunque, soli.
La stessa sera furono raggiunti da due uomini di fiducia dell’ingegnere Giovanni Montanari di Ravenna che li pregarono di affidarsi a loro. Tutti erano reduci della campagna dei generali Durando e Ferrari in Veneto ed avevano combattuto a Vicenza. Montanari aveva partecipato anche all’insurrezione del 1831.
Il generale abbandonò la salma della moglie, senza neppure poterla seppellire e seguì i suoi salvatori, prima nel borgo di Sant’Alberto, poi nei campi, nei pressi degli argini del Reno.
Il 6 giunse al capanno, ancora conservato, che da allora porta il suo nome. Garibaldi poté indossare l’abito di un contadino e prese a girovagare di cascinale in cascinale. Non gli mancò, però, mai l’aiuto di patrioti ed ammiratori: amministratori delle fattorie, mezzadri e fittavoli. Essi lo fecero passare, sempre accompagnato dal Culiolo, il 9, a Ravenna. Di lì a Cervia e poi Forlì, lasciata il16.
Da Forlì prese a risalire l’Appennino e il 19 agosto era a Modigliana, rifugiato presso il sacerdote don Lorenzo Verità. Questi lo ricoverò, e lo condusse per tre giorni lungo i sentieri dell’Appennino tosco-romagnolo.
Il 26 era a Prato, poi a Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, Volterra e Pomarance.
A San Dalmazio sostarono quattro giorni, poi, attraverso Scarlino, giunsero in Maremma.
Il 2 settembre giunsero, infine, in località Cala Martina, nel golfo di Follonica, ove s’imbarcarono su un battello da pesca, guidato da Paolo Azzarini. Questi li trasbordò a Cavo, il paese situato all'estremità nord-orientale dell’Isola d’Elba, ove ottennero la patente di sanità, il documento necessario ad entrare in altri porti. Passarono in vista di Livorno e, il 5 settembre sbarcarono a Portovenere nel Regno di Sardegna, Lì era finalmente in salvo. Il governo di Torino non lo avrebbe certamente consegnato agli austriaci, ma nemmeno, nel clima pesantemente compromesso dalle ripetute sconfitte della causa nazionale, volle accoglierlo esule.
Lo fermarono, quindi, a Chiavari, lo tradussero a Genova e il 7 e lo espulsero dagli Stati sardi. Garibaldi si recò a Tunisi ma fu respinto dal Bey.
Allora si recò alla Maddalena e successivamente a Tangeri. Lì ricevette l’aiuto del console sardo, che lo assistette sino al giugno 1850, quando il generale si imbarcò per l’America.

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