mercoledì 28 dicembre 2011

FIAT MARCHIONNE: DEBACLE! da www.wallstreetitalia.com

Alcune notizie riguardanti il gruppo Fiat/Chrysler vanno valutate in termini oggettivi, in questo scorcio di fine anno, a partire dal fatto che quasi tutte le news riguardanti Torino sono censurate in Italia dalla grande stampa, e Wall Street Italia ritiene invece doveroso pubblicarle. La verita' e' che il ceo del gruppo Fiat/Chrysler, Sergio Marchionne, appare sempre piu' un giocatore di poker, aggressivo e cinico, il cui bluff potrebbe essere presto scoperto. Parliamo di fallacia di una strategia industriale da parte del leader di una grande azienda automobilistica, non ci sogneremmo mai di esaminare la questione dal solo "angolo" sindacale o da quello puramente finanziario (takeover di Fiat fino al 100% di Chrysler entro il 2012). Qui in ogni caso si parla di mercato Usa e non di Italia o Europa.

La Fiat di Marchionne resta comunque un pianeta in parte misterioso, infatti se molti analisti pensano che il ceo sia stato geniale a salvare il Lingotto dal crack qualche anno fa, molti altri esperti del settore auto ritengono che non siano piu' tempi di ambizione unita alla sola finanza, e' proprio l'industria - cioe' l'auto, i prodotti, i modelli che piacciono al mercato - che qui langue. Marchionne e' riuscito a investire una bazzecola, meno di $2 miliardi di dollari in cash, consolidando in bilancio la piu' piccola delle tre Big di Detroit, Chrysler, che ne valeva 8,3 sulla base dei conteggi dell'amministrazione Obama ai tempi del salvataggio (fine 2008) ma con un patrimonio netto tangibile negativo per 9,2 miliardi di dollari.

Secondo alcune fonti (tra cui un articolo del Corriere della Sera, di cui Fiat e' azionista, intitolato Fiat-Chrysler, il Peso dei Debiti sull'Ascesa di Marchionne), l'indebitamento complessivo del gruppo Fiat/Chrysler ammonta a 40,5 miliardi di euro e potrebbe arrivare presto a circa 45 miliardi, sommando ai debiti consolidati (26 miliardi, che si stanno avvicinando a 30) i 14,5 miliardi di Fga Capital, la joint venture con il Crédit Agricole avviata per finanziare gli acquisti della clientela.

Leggere: Bilanci e risultati Fiat primo semestre 2011.

Nel 2010 il gruppo automobilistico controllato della famiglia Agnelli aveva quasi 31 miliardi di euro di indebitamento finanziario totale, pari al 255% del capitale netto ma con una posizione finanziaria netta inferiore (-43%) di 17,4 miliardi dovuta a 13,4 miliardi di liquidità.

Ma veniamo alle news dell' ultimo mese e mezzo non circolate in Italia. Sono le seguenti:

1) Laura Soave, 39 anni, responsabile del brand e marketing di Fiat 500 in Nord America, e' stata silurata dopo appena 20 mesi dalla nomina; al suo posto e' stato chiamato l'11 novembre scorso Timothy Kuniskis, 44 anni, veterano Chrysler con 19 anni di carriera a Detroit.

2) Le vendite della Fiat 500 negli Stati Uniti sono a fine anno meno della meta' rispetto alle stime previste nel budget 2011. Un clamoroso, terribile flop, che non ha nulla a che fare con il mercato o la recessione ma solo con il lancio di un modello sbagliato e non adatto al mercato americano.

3) Decine di dealer Usa che hanno firmato un contratto di esclusiva con Fiat sono oggi sull'orlo della bancarotta, per impegni finanziari divenuti insostenibili: le vendite della 500 hanno gia' toccato un picco e sono stimate in ulteriore calo, stando agli ultimi report della stampa specializzata.

4) La National Highway Traffic Safety Administration Usa il 9 dicembre ha affibbiato alla Fiat 500 un rating sulla sicurezza di 3 stelle, il peggiore in assoluto assegnato finora negli Stati Uniti a un nuovo modello auto. Questa e' la notizia piu' recente ed e' destinata a incidere pesantemente sulle vendite gia' insoddisfacenti della 500 in America.

Partendo da quest'ultima news, ci si chiede con quale superficialita' il vertice del Lingotto (Marchionne con i manager del team tecnico) possa aver pianificato il lancio di un'auto nuova negli Stati Uniti senza aver prima dato per acquisito l'ottenimento dei requisiti anche tecnici necessari al successo, in un mercato come quello Usa particolarmente competitivo e affollato dei migliori competitor mondiali.

Il giudizio dell'ente federale Usa sulla sicurezza e' netto. La National Highway Traffic Safety Administration (NHTSA) ha assegnato 4 stelle sulla sicurezza della Fiat 500 in un incidente frontale e negli incidenti in cui si verifica un capottamento ma ha affibiato 2 stelle negli incidenti con impatto laterale.

L'agenzia federale americana lo ha annunciato sul suo website safercar.gov. Il rating e' peggiore di altre auto piccole della stessa categoria e soprattutto peggiore della grande maggioranza dei veicoli di ogni categoria venduti in America. Per adesso solo altre due auto - la Dodge Caliber (Chrysler) e il SUV Ford Escape hanno ricevuto 3 stelle per la sicurezza da parte della NHTSA (durata video: 6:16).



L'agenzia federale Usa segnala (vedere link sopra) che un maschio di media corporatura alla guida riceve 5 stelle in termini di protezione, ma una donna di media corporatura al posto del passeggero (sedile di destra) ha 2 stelle in termini di protezione. Secondo la NHTSA un passeggero sul sedile posteriore soffre ferite alle costole peggiori dell'usuale.

Ma torniamo al management responsabile del lancio di Fiat 500 negli Usa. Per quanto riguarda Kuniskis, il nuovo manager che ha sostituito Laura Soave, "eredita una rete di concessionari che non ha avuto un attimo di tregua e che ha investito pesantemente in saloni di vendita per i quali il fatturato e' molto meno di quanto il ceo di Chrysler-Fiat Sergio Marchionne avesse progettato dal franchise di un modello singolo, la piccola Fiat 500", scrive l'autorevole Automotive News di Detroit.

Marchionne aveva predetto che la Fiat 500 avrebbe venduto 50.000 auto all'anno in Nord America. Dal lancio lo scorso marzo le vendite negli Stati Uniti, Canada e Messico sono state di 21.380 auto fino a ottobre, ha detto il portavoce di Chrysler Ariel Gavilan. Secondo l'azienda 130 concessionari vendono la Fiat 500 (dati di ottobre) "ma solo 101 hanno per ora effettuato vendite". Da notare che la BMW ha venduto quest'anno sul mercato Usa 47.050 Mini fino a ottobre, si tratta del modello diretto concorrente della 500, reperibile in 90 concessionari e per il cui marketing i tedeschi hanno un budget limitato. Fino a tutto novembre Chrysler ha venduto 17.444 Fiat 500 negli Stati Uniti, con 11.200 unita' ferme all'1 dicembre, un magazzino di 173 giorni. Chrysler Group riporta vendite di appena 1.618 Fiat 500 a novembre, il terzo mese consecutivo di vendite in calo rispetto al mese precedente.

Le vendite di Fiat 500 vanno cosi' male che Chrysler Group ha sospeso la produzione a dicembre del motore da 1.4 litri FIRE con cui e' equipaggiata l'auto, ha detto uno dei responsabiili sindacali della UAW (United Auto Worker) di Detroit.

Questa situazione "ha cominciato a preoccupare i concessionari - scrive Automotive News - alcuni dei quali hanno investito fino a $3 milioni in negozi con un franchise unico obbligatorio dove puo' essere venduto un solo prodotto. Alcuni di questi dealers dicono che stanno perdendo decine di migliaia di dollari ogni mese".

Tenendo conto che Timothy Kuniskis ha rilanciato una massiccia campagna pubblicitaria in tv, in onda in questi giorni negli Usa, con J-Lo (Jennifer Lopez) come testimonial (cio' potrebbe pero' alienare i potenziali acquirenti maschi) sentiamo cosa dicono gli analisti americani del settore auto. Joe Langley, senior analyst di LMC Automotive, dichiara: "Lo stile iconico e grazioso della 500 la portera' solo fino ad un certo punto del mercato, passata la fase di chi compra sull'onda dell'ultima moda. Senza prevedere un messaggio di marketing piu' preciso per il brand, la Fiat avra' difficolta' a strappare clienti da altri marchi che sono invece ben conosciuti e stabilizzati in America".

Alan Baum di Baum and Associates dice che "la Fiat 500 non e' stata disegnata per il mercato degli Stati Uniti, ma invece semplicemnte piazzata li'". Secondo Baum i problemi sperimentati con il lancio della Fiat - dopo 27 anni di assenza dal mercato - "hanno reso la vita difficile ai concessionari, ai quali e' stato chiesto di investire sostanziali somme di denaro per le nuove showrooms". "Cio' continuera' ad avere un impatto, e sta gia' pesando sul rilancio dell'Alfa Romeo sul mercato Usa", ha spiegato Baum all'Agence France Press. Secondo Langley le vendite della Fiat 500 hanno toccato gia' il picco massimo, e nonostante gli sforzi e gli investimenti massicci del gruppo nella campagna di spot in Tv a livello nazionale (Usa) per i prossimi mesi i numeri cominceranno a calare.

L'opinione generale e' comunque quella dettata dal buon senso. E' difficile vendere la Fiat 500 negli Stati Uniti perche' e' un'auto piccola che costa molto cara (15.500 dollari il modello di partenza, vedi Edmunds.com). Ecco alcuni commenti postati sul sito di Automotive News da esperti del settore che esprimono il loro sentiment sulla piccola auto "made in Italy" (con carrozzeria fabbricata in Messico):



"Il volume di vendita iniziale previsto in 50.000 Fiat 500 era semplicemente stupido in un paese che ama le automobili grandi e dove i veicoli che vendono di piu' sono da decenni i pickup e i SUV".



"Sergio Marchionne ed altri ben pagati manager Fiat/Chrysler devono uscire ogni tanto dalla loro torre d'avorio e avvicinarsi alla gente comune. Poche persone che hanno come caratteristica la praticita', che vanno al lavoro tutti i giorni, che forse hanno un figlio o due, e hanno bisogno di una macchina sicura, affidabile ed economica, sono disposte a pagare un prezzo cosi' alto per una Fiat 500. Questa e' un'auto giocattolo con il prezzo di una grande auto. Il risultato, e' che le vendite sono patetiche, come di fatto lo sono. Sul lato americano - Chrysler era in rianimazione quasi morta, e forse avrebbe dovuto essere sacrificata per lasciare spazio ad aziende piu' competenti. Sul lato italiano - loro hanno chiaramente e severamente misinterpretato il mercato auto americano".



"Ma Marchionne quando capira' che la 500 e' un'auto che non raggiungera' gli obiettivi, sovrastimata, prezzata troppo alta, troppo sbandierata e sovra-esposta, in questo mercato? Per $16.000 dollari chiunque potrebbe comprare una vera auto. Questo e' il terzo tentativo di ingresso della Fiat negli Stati Uniti da quando io ho cominciato a lavorare in questo settore nel '61. Gli italiani certamente apprendono con lentezza".



"Io penso, signor Conley, che il problema e' sempre stato l'incompatibilita' tra un business familiare in Italia e il consumismo americano del nercato di massa. L'istinto di base di praticamente tutti gli imprenditori italiani e' di vendere la lora benamata madre piuttosto che mollare sul fronte dei profitti. Ed e' proprio cio' che ha portato la FIAT a cercare una presentazione stile boutique ad un prezzo molto alto per la 500. Gli italiani odiano competere sul prezzo. Ma qui in America e' un desiderio di morte/suicidio per ogni uomo d'affari"

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domenica 25 dicembre 2011

(BUON) NATALE

Il Natale non fa tutti più buoni: fa tutti più vuoti. Il cristiano che fa shopping di regali e strenne natalizie rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità: in tutta buona fede crede che Gesù nacque figlio di Dio a Betlemme, segnando in una stalla lo spartiacque decisivo della storia umana; contemporaneamente, è perfettamente cosciente che tale evento non condiziona la sua vita reale, in quanto l’epoca moderna, disincantata e secolarizzata, è scristianizzata. Siccome l’economia tende a inglobare ogni forma di espressione umana, quegli appuntamenti che nonostante tutto mantengono in vita una sia pur debole fiammella di fede ultraterrena si trasformano in orge di bancomat e scontrini.

Babbo Natale e l’albero dei doni, americanizzazioni di antichi miti pagani europei, vincono sul Bambinello e sulla Vergine, perché più adatti a innescare la corsa agli acquisti commerciali.
Questo lo sa benissimo anche il devoto che va alla messa notturna del 25 dicembre, e lo accetta di buon grado. Per quieto vivere, perché così fanno gli altri, per abitudine. Ma soprattutto perché, dopo due secoli di sistematica estirpazione del sacro dall’esistenza quotidiana, non riesce a percepire il divino. E lo sostituisce malamente con una fedeltà a riti di massa che non sono morti solo perché una parvenza di tradizione spirituale serve ad appagare il bisogno innato di trascendenza e di comunità. E’ la sensazione di una notte, sia chiaro. Per il resto c’è la carta di credito.

Eppure quel bisogno preme, non si dà pace, è insoddisfatto. Non è umanamente sostenibile una religiosità circoscritta a qualche giornata di contrizione ipocrita, o, bene che vada, alla particola domenicale. E’ nelle difficoltà di ogni giorno che al comune ateo travestito da credente manca la forza rassicurante e rigenerante del divino, del numinoso. L’aura sacra che un tempo avvolgeva ogni momento del nostro passaggio sulla terra si è eclissata, scacciata con ignominia dalla spasmodica ricerca di ritrovare in tutto una causa dimostrabile.

La morte di Dio ci ha lasciati soli con una tecnica scientifica che ha razionalizzato la natura mortificandola, e con una logica economica che va per conto suo, incontrollata e disanimata, rubandoci la libertà di cambiare il corso della storia. Siamo soli col denaro, vero nostro Signore. Dice bene Sergio Sermonti, scienziato anti-scientista – un apparente ossimoro che gli è costato l’ostracismo pubblico: «Come insegnava Goethe, non dovremmo chiederci il perché ma il come delle cose. Nel chiedere il perché c’è un tacito presupposto che dietro ogni cosa ci sia un’intenzione, un proposito (appunto, un “perché”) e quindi che ogni cosa sia scomposta o scomponibile in fini e strumenti, o mezzi di produzione, come un’azienda umana. Sotto tutto questo c’è una sottile mentalità ottimistica, economicistica, produttivistica. No. Il mondo opera su un’altra dimensione, galleggia nell’eterno, è sospeso nell’infinito, ed è per l’appunto questo spostarci nelle sue dimensioni incantate il più raffinato e prezioso risultato della conoscenza, e non, al contrario, quello di rovesciare il mondo ai nostri piedi» (“L’anima scientifica”, La Finestra, Trento, 2003).

Per recuperare il senso del divino, il cristianesimo ormai serve a poco. E’ troppo compromesso con la modernizzazione, essendosene spesso lasciato usare come puntello e bandiera. Le Chiese sopravvivono nell’acquiescenza allo stile di vita radicalmente anticristiano dell’uomo consumato dai consumi. In particolare i Papi, incluso l’ultimo, il tradizionalista Ratzinger, si sono arresi a Mammona, e non c’è un prete a pagarlo oro che si scagli contro i moderni mercanti nel tempio: preferiscono i facili anatemi sulle unioni omosessuali e le comode prediche sulla fame in Africa. Il cristiano ha dimenticato il pauperismo di San Francesco d’Assisi, ha rinnegato l’umanesimo dei pontefici rinascimentali, ha sepolto l’antimodernismo del Sillabo, con Lutero e Calvino è stato all’origine stessa dell’etica capitalistica. Si è adattato al materialismo con il Concilio Vaticano II e allo showbusiness con Giovanni Paolo II: rinunciando alla lotta contro il mondo, non costituisce nessuna minaccia per il MacWorld. Anzi gli fa da angolo cottura spirituale.

Da chi o da cosa, allora, può venire un aiuto per liberare la divinità prigioniera che scalpita dentro di noi? L’ostacolo viene dal fatto che il cosiddetto progresso, scomponendo razionalmente la natura e violentandola nell’insaziabile tentativo di piegarla, l’ha resa muta e l’ha eliminata dalla nostra esperienza quotidiana. Da un lato non ci fa più alcuna paura, la paura ancestrale che è il moto d’animo originario di qualsiasi cultura. Dall’altro l’elemento naturale, incontaminato o non del tutto antropomorfizzato (com’erano ancora le vaste campagne nell’Ottocento e nel primo Novecento) si è via via ristretto e diradato. E’ letteralmente scomparso dalla nostra vista.

Oggi la stragrande maggioranza della popolazione mondiale vive concentrata come formiche in centri urbani sovraffollati, dove il verde è rinchiuso in minuscole riserve talmente artificiose che la regola è di non calpestare le aiuole. I bambini non fanno più conoscenza con la terra perché non ne hanno più sotto casa, non s’incuriosiscono scoprendo insetti e animali perché abitano circondati dal cemento e non si sporcano nemmeno più, perché passano il tempo ipnotizzati davanti a computer, televisione e videogiochi. Nei weekend o in vacanza le famigliole si recano diligentemente al mare o in montagna, ma a parte qualche bagno o escursione, inquadrati in ferie organizzate a puntino con tutti i comfort, il contatto con le forze naturali è minimo, povero, addomesticato. Sempre insufficiente a resuscitare una risonanza interiore fra l’io individuale e il cosmo, fra il sentimento della propria limitatezza personale e il sentimento di appartenere al tutto, all’organismo della vita. E’ in questa corrispondenza che si può provare la percezione che in un orizzonte, in un albero, in un filo d’erba, in un soffio di vento, in ogni singolo nostro respiro esista un’anima, cioè un dio. Ma se non si sperimenta in sé questa immediatezza, anche il discorso più ispirato resta lettera morta, una pia intenzione romantica.

La gioia im-mediata di sentirsi partecipe di un grande Essere ci è preclusa dal sovraccarico di costruzioni mediate, razionalistiche, cervellotiche e meccaniche con cui abbiamo imparato a guardare e toccare ciò che ci circonda. Questa è la malattia che ci portiamo addosso: l’eccesso di ragionamenti che desertifica il nostro bosco profondo. L’uomo scettico e che la sa lunga ha orrore della naturalità nuda e pura, e se non può manipolarla con la sua scienza maniacale e coi suoi aggeggi tecnologici, la respinge, dipingendola come un caos di animalità bruta e senza controllo. Ma basta uno tsunami, un terremoto o l’esplosione di furia omicida (anche questa è “natura”) per rendergli la pariglia e mostrargli che Madre Terra, vilipesa e umiliata, è sempre lì, pronta a risvegliarsi.

Scegliere consapevolmente di risvegliarla non è possibile, per ora, nemmeno nel privato del proprio foro interiore. Il salto è accessibile solo a una condizione, oggi impraticabile a livello di massa: il ritorno a un sistema di vita più semplice e scandito dai ritmi naturali. Eppure, se tu che mi leggi non cominci almeno a porti il problema, l’impossibile resterà impossibile per sempre.

Alessio Mannino
Fonte: http://alessiomannino.blogspot.com

giovedì 22 dicembre 2011

LICENZIAMENTO

(dall'it. licenza, a sua volta dal lat. licet, è lecito). L'atto con cui si dà licenza - ovvero la facoltà e il permesso - a qualcuno di andarsene, o lo si rimuove d'autorità da un incarico. Negli ambiti economico-giuridico e politico-sociale il licenziamento è l'atto con cui il datore di lavoro allontana un dipendente dall'impiego, rescindendo unilateralmente il contratto di lavoro.

Nel licenziamento si scontrano due diritti, due libertà: la libertà di mettere in libertà, di allontanare, e la libertà di lavorare in serenità e senza minacce. Ovvero, da una parte c'è il diritto al lavoro del cittadino, sancito dagli articoli 1 e 4 della Costituzione, che implica anche il diritto alla stabilità del reddito da lavoro, come fonte di sostentamento del lavoratore e della sua famiglia; dall'altro c'è il diritto del datore di lavoro e della sua impresa di impiegare al meglio la forza lavoro, dal punto di vista sia qualitativo sia quantitativo. Fra questi due diritti - che, portati all'estremo, prevederebbero il primo la piena e totale garanzia pubblica della intangibilità del posto di lavoro come diritto soggettivo, e il secondo la insindacabile licenziabilità del dipendente in qualsivoglia circostanza, sulla base del diritto privato che tutela la proprietà del datore di lavoro - gli ordinamenti giuridici istituiscono mediazioni e compromessi, che individuano punti di equilibrio a loro volta collegati alle circostanze storiche, ai cicli economici, ai rapporti di forza che attraversano la società, nonché alla qualità specifica del datore di lavoro (ad esempio, lo Stato tradizionalmente tutela i propri dipendenti dal licenziamento molto più dei datori di lavoro privati).

In Italia si è così passati dall'articolo 18 dello "Statuto dei Lavoratori" (1970), che vieta il licenziamento se non per giusta causa e che conferisce centralità e discrezionalità al giudice del lavoro, il quale in caso di licenziamento ingiustificato può disporre la reintegrazione del lavoratore, al "Collegato lavoro" (2010) che tra l'altro riforma la disciplina del licenziamento individuale, in modalità meno favorevoli ai lavoratori. Fra le due norme sono passati quarant'anni, durante i quali le ragioni dell'economia di mercato capitalistica hanno progressivamente prevalso su quelle del lavoro dipendente e della sicurezza sociale. Oggi si cerca di contemperare le esigenze di flessibilità del lavoro con quelle della sicurezza individuale e collettiva, combinandole variamente (ad esempio, garantendo la sicurezza del lavoro ma non di uno specifico posto di lavoro), ma la crisi sistemica del capitalismo e la recessione europea generano il diffuso timore che rendere più facili i licenziamenti eliminando il concetto di giusta causa non serva a favorire il dinamismo delle imprese e la ripresa economica, ma solo a dare un segnale anche simbolico dell'impotenza attuale del lavoro rispetto al capitale.

Dato che nella grande maggioranza dei casi non produce una diversa occupazione ma solo disoccupazione - i cui costi individuali e sociali sono altissimi, in termini di perdita di autonomia vitale e di autostima da parte del lavoratore - , il licenziamento appare un'angosciosa eventualità catastrofica, che spezza la radice umanistica della democrazia mettendo a nudo la debolezza del lavoratore davanti all'impresa e alle dinamiche economiche, e disegnando quindi uno scenario di forte disuguaglianza (di forze e di potere) fra le parti sociali, e di precarietà (e al limite di superfluità) del lavoro. Il licenziamento è l'evento in cui più traumaticamente l'economia incide sulla vita delle persone, che ne sono coinvolte e spesso travolte. Ed è quindi il punto in cui acquista concretezza esistenziale ogni dibattito sul primato dell'economia o della politica: l'economia affida le persone a dinamiche che possono essere distruttive, mentre la politica (se è democratica) cerca - quando ha la forza sufficiente - di tenere sotto controllo il capitalismo, di costruire sistemi di sicurezza che ne ammortizzino gli effetti negativi, e di garantire al lavoro la centralità che la Costituzione gli assegna.

di CARLO GALLI
LA REPUBBLICA

domenica 6 novembre 2011

il cazzotto ai politicanti

Intendo qui celebrare il cazzotto. Il vecchio, caro, sano cazzotto. Come quello che un abitante di Aulla, che stava cercando di spalar via i detriti lasciati dall'alluvione, ha sferrato a Michele Lecchini, consigliere comunale (leghista) a Pontremoli, il quale si era imprudentemente sporto dal finestrino di una delle tante auto blu che procedevano incolonnate nella zona del disastro. Probabilmente lo sfortunato Lecchini non aveva alcuna responsabilità nelle devastanti conseguenze dell'alluvione, ma quel pugno, un diretto destro che ha colpito il consigliere a un occhio, è emblematico dell'insofferenza e dell'esasperazione che sta montando contro la classe politica e dirigente italiana.

Nella foto: Michele Lecchini consigliere comunale della Lega Nord, a Pontremoli, raggiunto da un pugno e da un grumo di fango a un occhio. Era in auto con il sindaco durante la contestazione ad Aulla. La foto è stata scattata da uno degli occupanti dell'auto appena dopo l'aggressione.

L'improvvisato pugile non era infatti un “anarco insurrezionalista”, un black bloc, un militante di un qualche gruppuscolo eversivo. Era un comune cittadino. Come comuni cittadini erano quelli che hanno preso a palate di fango il convoglio di auto blu (centrata in pieno Lucia Baracchini, sindaco di Pontremoli) e poi hanno cominciato a scuoterle gridando “vergogna!”. Come un comune cittadino era quella signora che ha urlato “assassino” al sindaco di Aulla, Roberto Simoncini, e poi è scoppiata in lacrime.

Suppongo che il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, se leggerà queste righe, mi bollerà come “cattivo maestro”, fomentatore di violenza e di possibile terrorismo. Io credo il contrario. Il cazzotto è uno sfogo salutare, e sostanzialmente innocuo, dell'aggressività vitale che alberga in ognuno di noi. A furia di comprimerla questa aggressività, in una società ammalata di buone maniere (si veda Carnage, il film di Roman Polanski), si accumula e finisce per esplodere improvvisamente nelle forme più brutali, per esempio nei “delitti delle villette a schiera” come li ha chiamati Guido Ceronetti.

Negli anni Cinquanta ci scazzottavamo tutti. Ci si scazzottava fra ragazzini, divisi per bande di quartiere (è molto improbabile che bambini di undici, dodici, tredici anni si facciano sul serio male, il peggio che poteva capitare era di tornare a casa con un occhio nero, come Lecchini, e prendere, per sopramercato, due sacrosante cinghiate da tuo padre). Ma ci si scazzottava anche fra adulti. Allo stadio, dove nessuno si sognava di andare con spranghe e catene, e fuori dal bar, in genere per questioni di ragazze. Ma quella violenza, diciamo così, primigenia, elementare, naturale, non è mai sfociata in nulla di più grave. Il terrorismo era di là da venire. Sarebbe comparso una quindicina di anni dopo quando i figli dei borghesi, che non avevano preso le giuste nerbate dai padri, i quali erano al contrario orgogliosi di quei loro pargoli tanto “rivoluzionari”, cominciarono a girare in massa per le strade gridando “Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi”, “Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero”, “Uccidere un fascista non è reato” e qualcuno (non loro, i figli di papà che di giorno giocavano a spaccare le vetrine, e magari anche qualche testa, e di sera, tornati a casa, si attaccavano al telefono: “Pronto, Leonetta?”, “Pronto, Dadi?” che non sono esattamente nomi proletari) prese sul serio quegli slogan.

Il cazzotto insomma è, a suo modo, leale. Sleale, viscida e subdolamente violenta è invece l'evocazione che il ministro Sacconi, sottoposto ad aspre critiche per le sue misure sui licenziamenti (che personalmente, sia detto di passata e per quel che vale, condivido), ha fatto del terrorismo. È una forma di intimidazione che abbiamo visto praticare già tante volte dalla classe politica quando si trova in difficoltà. Un ricatto morale ignobile e inaccettabile che tende a zittire ogni critica addossando a chi la fa la responsabilità dell'eventuale atto criminale di qualche sciagurato che se ne faccia suggestionare (a evocare una cosa inesistente si rischia di materializzarla, come negli esorcismi). Ha detto, con grande lucidità, Pietro Ichino: “Non si può evocare il pericolo di violenza politica per comprimere il dibattito o peggio per accollare a chi dissente la responsabilità oggettiva di eventuali aggressioni commessa da altri”.

Purtroppo gli Ichino sono rara avis e i Sacconi, e i molto peggio di Sacconi, la regola di una classe politica, a tutti i livelli, di incapaci, di inefficienti, di parassiti, di schifosamente privilegiati, quando non di truffatori, di ladri e di delinquenti, che ci logorano quotidianamente i nervi comparendo ogni giorno, con i loro mascheroni da Halloween o da commedia dell'Arte, per dimostrarsi, al momento del dunque, per quel che sono: delle nullità. Con costoro il massimo che possiamo permetterci, in democrazia, è un cazzotto. Ma è anche il minimo.

Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
2.11.2011

martedì 1 novembre 2011

Finis Italiae: dopo il diktat economico dell’Ue svendita totale dello Stato sociale

Quello che era iniziato nell’incontro sul panfilo reale Britannia nel 1992, presenti esponenti di spicco della finanza anglosassone e quel Mario Draghi ora alla BCE, la svendita dell’Italia e del suo patrimonio economico, si sta completando proprio in questi giorni.

Che l’Italia sia un Paese, nazione nel senso classico non si può definire da tempo, senza sovranità si è visto anche con la vicenda libica. Ora con la lettera di Berlusconi all‘Ue ogni dubbio è stato spazzato via definitivamente, il governo della “repubblica delle banane italiana” si è piegato senza battere ciglio a chi gli chiedeva di spazzare via in nome dell’euro e della stabilità finanziaria, ogni residuo di Stato sociale e di tutela per i suoi cittadini, nonché aprire la strada al capitale straniero.

Le misure che saranno prese in Italia, non era bastata evidentemente la recente manovra finanziaria, sono in linea con quelle che si sono già abbattute sulla Grecia e in passato su tutti coloro che sono finiti nelle maglie del sistema usurocratico imposto dal Fmi, Banca Mondiale, Bce e ora Unione Europea.

Sarkozy e la Merkel, Barroso e Van Rompuy hanno fatto la faccia feroce, ...

... e prima di loro i boiardi Draghi e Trischet, forti anche del sostegno in Italia di quel Napolitano che si può oramai considerare tranquillamente la quinta colonna delle oligarchie mondialiste.

Gli italiani, la cui sensibilità nazionale dopo il 1945 è stata semplicemente lavata, non hanno ancora appieno capito la gravità delle misure intraprese da questo governo e non basta la lettera di Berlusconi sul “Il Foglio” di domenica 30 novembre a tranquillizzarci, semmai è solo una conferma di quanto avvenuto e che accadrà nel prossimo futuro.

Un‘attenta lettura della relazione del Presidente del Consiglio fatta all’Ue apre scenari a dir poco inquietanti.

Si parla di debito pubblico, senza specificare verso chi, una storia che si trascina da tempo e in nome della quale ogni sacrificio dovrebbe essere giustificato, peccato che esso non sia altro che il debito che lo Stato italiano ha contratto con la banca privata d’emissione della moneta e con i relativi interessi passivi che crescono di anno in anno sui titoli di debito pubblico, in una spirale a salire senza fine. E’ pura fantasia pensare che possa essere ripianato, è la stessa situazione in cui viene a trovarsi chi incappa nelle maglie di uno strozzino, e la Banca d’Italia, la Bce e il Fmi, non sono altro che strozzini legalizzati che esautorano gli Stati dalle loro funzioni istituzionali, facendo da apripista agli speculatori internazionali che così potranno fare man bassa d’industrie, banche e servizi.

Le autentiche perle con le quali si vorrebbe far ripartire l’economia italiana, sono le stesse applicate in passato in America Latina, in Africa,in Asia, dove hanno portato solo miseria per i più e ricchezza per pochi oligarchi.

Privatizzazioni in primis, qui l’obiettivo è quello non dichiarato di distruggere completamente il “sistema Italia” e ridimensionare ancor di più la forza economica nazionale. Con la scusa della libera concorrenza, lo Stato e gli Enti Pubblici dovrebbero mettere sul mercato beni e servizi in nome di quella libera concorrenza sempre osannata ma utopica perché alla fine prevale sempre la legge del più forte che saprà imporre le sue regole a detrimento degli interessi collettivi, gli stessi che sono alla base del servizio pubblico che deve operare non a scopo di lucro. Una volta messe sul piatto è facile intuire nelle mani di chi finirebbero, che sono poi gli stessi che reggono le fila delle grandi banche d’affari anglo-americane, una vera e propria espropriazione del nostro patrimonio economico. Va ricordato che in passato i governi Ciampi e Prodi, quest’ultimo uomo Goldman Sachs, avevano già provveduto a svendere interi settori strategici.

Non poteva mancare poi il solito richiamo al “dinamismo delle aziende”, da attuarsi nell’arco di quattro mesi, che tradotto significa libertà di licenziamento, come se l’insicurezza del posto di lavoro fosse il volano per accrescere il benessere della popolazione. Questo per la gioia del ministro del Welfare, mai nome fu più inappropriato, Maurizio Sacconi, il falco liberal che in totale malafede crede che maggiore occupazione faccia rima con facilità di licenziamento. Il ministro evidentemente dimentico dei suoi trascorsi socialisti, e senza alcuna dignità nazionale, rilancia e ripete pappagallescamente quello che l’Ue ha imposto, con un accenno al “pericolo terrorismo”, che funziona sempre quando si vuole criminalizzare eventuali proteste. Sacconi ha spiegato poi “che si potrebbe sospendere l’applicazione dell’Art 18 dal sedicesimo assunto in poi nelle aziende con meno di quindici dipendenti e nelle quali oggi non si applica la Legge 300/70”, e di “trovare interessanti le proposte del senatore del centro sinistra Ichino in modo da stabilire regole più flessibili per chi sarebbe costretto a uscire dal mondo del lavoro”. Più bipartisan di così…

Nulla di nuovo sotto il sole, i peggiori italiani sono spesso stati al governo e lo sono tuttora in Parlamento e non da oggi. Ci basta sentire le risibili dichiarazioni di un Bersani che dovrebbe rappresentare l’opposizione, che non trova di meglio che incolpare l’attuale governo e difendere l’euro e l’Europa delle banche, il solito gioco al massacro dei tutti contro tutto che caratterizza la pochezza della classe politica italiana di oggi, la quale non ha alcuna visione strategica nel medio e lungo termine e non ha neppure vagamente l’idea di cosa siano gli interessi nazionali.

A queste azioni seguiranno tutta una serie di riforme del mercato del lavoro, che è inevitabile intuire che andranno oltre ai già nefasti effetti della Legge Biagi. La sola parola “efficientamento” del lavoro dovrebbe far riflettere. Entro il 2011 il Governo s’impegna a favorire l’occupazione dei giovani, con contratti di apprendistato e a tempo parziale, tutte cose già viste e che non hanno risolto nulla, mentre entro maggio 2012 sarà varata una “riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e a licenziare”. Questa se approvata sarà il definitivo canto del cigno dei contratti a tempo indeterminato e la messa in soffitta dell’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, e con esso la sicurezza di un posto di lavoro su cui costruire il proprio futuro e quello della propria famiglia. Già adesso con la “somministrazione di lavoro”, vero e proprio caporalato legalizzato, i tempi determinati più o meno lunghi, si è creata una generazione di giovani precari, che arrivano alla soglia dei trenta anni non sapendo neppure che cosa avverrà domani del proprio contratto, una navigazione a vista che si sta ripercuotendo sull’intero sistema sociale italiano. Meno sicurezza, si traduce in meno nuclei famigliari, e quindi meno figli e di conseguenza un calo demografico in costante crescita, così qualcuno potrà dire che vi sono più pensionati e meno forza lavoro.

La scure liberista si abbatte anche sugli orari di lavoro, che negli esercizi commerciali saranno “liberalizzati”, in poche parole potremmo avere come nella patria per eccellenza del capitalismo selvaggio, gli Stati Uniti, i negozi aperti anche la sera, i supermercati, i centri commerciali, che però non risolveranno un bel niente, ma favoriranno solo uno sfrenato consumismo, distruggendo quel poco che è rimasto di coesione sociale. Forse e senza il forse è proprio quello uno degli obiettivi che si prefiggono gli gnomi dell’alta finanza, un popolo d’inebetiti consumatori senza radici in tanti quartieri dormitorio. Certo qualcuno sarà felice di poter comprare l’ultimo modello di I Pod anche alle 11 di sera, dimenticando che dall’altra parte del bancone vi sarà sempre una persona costretta a trascurare la propria vita sociale, un alieno che non saprà più distinguere i giorni feriali da quelli festivi, un tutto uguale senza fine né inizio.

Negli altri punti della lettera di capitolazione nazionale, non poteva mancare la Pubblica Amministrazione, da sempre considerata parassitaria da chi si crogiola nel mito del “laissez faire liberista”, meno Stato e più privato è il loro slogan. Sarà istituita la mobilità obbligatoria, sarà introdotta la Cassa Integrazione Guadagni che vorrà dire riduzione salariale, poi diminuzione del personale e blocco ovviamente dell’avvicendamento. Invece di colpire chi non fa il proprio dovere, basterebbe l’esempio dei tanti Prefetti incapaci che circolano in Italia o lo stuolo dei magistrati inetti, e migliorare invece il servizio al cittadino, ridando senso dello Stato e dignità a chi lavora per esso, si preferisce applicare le ricette che i cosiddetti “mercati” vogliono.

Poi l’affondo sulle pensioni, com’era prevedibile, da sempre nel mirino di tutte le politiche neoliberiste, nonostante il bilancio dell’Inps, ente previdenziale nazionale, sia in attivo e non presenti problemi, ma l’Europa vuole che i lavoratori escano solo a 67 anni, una vita di lavoro se pensiamo bene che non ha giustificazioni se non quella di ottenere risparmi tramite il sistema previdenziale da dirottare poi a sostegno dei soliti noti di Francoforte e Bruxelles, un sacrificio in più per salvare le banche e l’euro.

Immaginiamo lo scenario con persone ridotte a lavorare con acciacchi di vario genere, demotivati dopo una vita passata dietro una scrivania o in fabbrica, mentre i loro figli sono costretti ad arrancare in cerca di un’occupazione stabile, e i padri invece costretti a non lasciare il posto di lavoro.

Hanno scippato il Tfr con la creazione dei fondi pensione privati, introdotto il sistema di calcolo contributivo al posto di quello retributivo, e ora vogliono farci morire sul posto di lavoro solo perché le statistiche dicono che le attese di vita sono aumentate. Si è vero si campa più a lungo, ma come e dove non è certo sicuro, le malattie esistono ancora e le case di riposo sono piene di gente che vegeta e non vive realmente. L’ideologia che privilegia la produzione, il profitto a tutto il resto, disprezza da sempre chi vuole tempo per pensare, chi cerca nella socialità, nella cultura, nell’arte un completamento del proprio vivere, perditempo sono considerati, del resto una testa pensante può creare grattacapi quindi è meglio stroncare l’individuo a forza di lavoro

La resa italiana è totale come si può ben vedere. Si parla di cinque miliardi annui che renderebbero i beni immobili dello Stato da cedere, così che altri pezzi dell’argenteria di famiglia finiranno nella mani di privati e non certo italiani.

Quella che è la ricchezza e la storia di una Nazione, costruita con il sacrificio d’intere generazioni, sarà ceduta come si fa con gli immobili di un’azienda che fallisce.

Federico Dal Cortivo
WWW.LUOGOCOMUNE.NET

sabato 29 ottobre 2011

5 Novembre: festa di popolo in Piazza San Giovanni

L’appuntamento è per il 5 novembre a Roma in Piazza San Giovanni. “Un grande appuntamento pacifico, una grande festa di popolo, 'in nome del popolo italiano' per lanciare le proposte PD e per la ricostruzione democratica, sociale ed economica del Paese”, ha annunciato il Segretario del PD, Pier Luigi Bersani.

Questi i numeri della manifestazione: quindici treni, una nave speciale, diversi centinaia di pullman da tutta Italia, e molti altri se ne aggiungeranno man mano che si avvicinerà la data della grande festa di piazza.

Sul palco democratico prenderanno la parola tra gli altri, i leader dei principali schieramenti progressisti in Europa: il candidato alle presidenziali francesi Francois Hollande e il segretario del Spd tedesco, Sigmar Gabriel, confermando il taglio europeo della manifestazione. Parteciperanno anche il leader dell'Idv Antonio Di Pietro e l'Associazione Articolo 21.
Ci saranno inoltre spazi per le famiglie, punti di attrazione per i bambini, spettacoli con diversi gruppi musicali. La manifestazione sarà una festa di popolo organizzata dal Parito per lanciare la proposta dell’alternativa al berlusconismo, della quale il PD sarà un imprescindibile pilastro.

“Dimostreremo con la nostra presenza che noi ci rivolgiamo non solo alla nostra gente ma a tutte le associazioni, le persone, i movimenti – ha aggiunto Bersani - il 5 novembre parleremo della ricostruzione dell'Italia, delle prospettive della democrazia, della possibilità di riprendere un cammino di crescita insomma daremo una parola di fiducia. Sento montare una grande voglia per questo appuntamento pacifico, di popolo. Sarà anche il nostro regalo a Roma, città Capitale che ha sempre accompagnato l'evoluzione democratica del Paese. Piazza San Giovanni - ha spiegato Bersani - sarà aperta non solo ai militanti del PD, ma a tutte le associazioni e a tutte le persone che vogliono manifestare anche non sotto le nostre bandiere".

L’appuntamento popolare si concluderà con l’intervento del Segretario nazionale del PD, Pier Luigi Bersani.

mercoledì 5 ottobre 2011

4 euro l'ora per morire!

I LUCIANO GALLINO
repubblica.it

Le hanno trovate abbracciate. Le quattro donne morte lunedì nel crollo della palazzina lavoravano in nero per pagare i mutui. E venivano pagate 4 euro l´ora. Ieri si è levato il monito di Napolitano: «È inaccettabile». La Procura di Trani ha aperto un´inchiesta per omicidio colposo plurimo e disastro colposo. Ma al momento non ci sono indagati.

Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora.

Nella foto tratta da Facebook tre delle vittime del crollo della palazzina di Barletta: in alto con la maglia turchese Antonella Zaza, con gli occhiali Giovanna Sardaro e in basso Matilde Doronzo (Ansa)

Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.

Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.

Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.

venerdì 16 settembre 2011

LA MINACCIA DELL´ARTICOLO 8: quando ci opporremo a tutto ciò?



di Luciano Gallino

I commenti all´articolo 8 del decreto sulla manovra finanziaria hanno insistito per lo più sul rischio che esso faciliti i licenziamenti, rendendo di fatto inefficace l´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori allorché si realizzino “specifiche intese” tra sindacati e azienda. È stato sicuramente utile richiamare l´attenzione prima di tutto su tale rischio, di importanza cruciale per i lavoratori. Tuttavia un´attenzione non minore dovrebbe essere rivolta ad altre parti dell´articolo 8 che lasciano intravvedere un grave peggioramento delle condizioni di lavoro di chiunque abbia o voglia avere un´occupazione alle dipendenze di un´azienda.
Vediamo dunque che cosa potrebbe succedere ad un lavoratore (o lavoratrice) che già è occupato in un´azienda, oppure stia trattando la propria assunzione, laddove associazioni dei lavoratori rappresentative sul piano nazionale o territoriale abbiano sottoscritto con quell´azienda le “specifiche intese” previste dall´articolo 8. Sappia in primo luogo l´interessato che – se ci sono state delle intese in merito – ogni suo movimento sul lavoro sarà controllato istante per istante da un impianto audiovisivo. L´articolo 4 dello Statuto dei lavoratori lo vieterebbe, ma l´articolo 8 del decreto permette di derogarvi. Gradirebbe forse, quel lavoratore, un orario intorno alle 40 ore? Se lo tolga dalla testa. In forza di un´altra “specifica intesa”, entro quell´azienda l´orario normale è di 60 ore, il limite massimo posto da una direttiva della Commissione europea, limite che per particolari mansioni può salire a 65; però, in forza della stessa intesa, può in qualche mese scendere a 20. Vorrebbe essere classificato come operaio specializzato, come lo è da tanti anni? Gli viene fatta presente un´altra intesa, stando alla quale quell´azienda può attribuire a uno specializzato la qualifica di operaio generico: prendere o lasciare. Può anche accadergli, dopo qualche tempo, che l´azienda gli proponga di convertire il contratto di lavoro a tempo indeterminato in un contratto da collaboratore a progetto rinnovabile, se garba all´azienda, di tre mesi in tre mesi. Un contratto grazie al quale si ritroverebbe a lavorare nella veste di un autonomo – tali essendo i collaboratori a progetto – che deve effettuare la sua prestazione con tutti i vincoli del lavoratore subordinato, a partire dall´orario e dai controlli audiovisivi, ma senza fruire dei benefici che questi hanno, tipo avere per contratto le ferie retribuite.
Le situazioni lavorative sopra indicate non sono illazioni gratuite. Se le parole del decreto hanno un senso, sono tutte situazioni rese materialmente e immediatamente possibili, nel caso in cui l´articolo 8 diventi legge, dai punti che vanno da a) (concernente gli audiovisivi) fino ad e) (riguardanti le modalità del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni) del comma 2 dell´articolo in questione. Con un minimo impegno se ne possono individuare innumerevoli altre; quale, per dire, un´organizzazione del lavoro che abolisca del tutto le pause sulle catene di produzione, o introduca operazioni di dieci secondi da ripetere seicento volte l´ora.
La giungla di situazioni lavorative in cui qualsiasi lavoratore o lavoratrice potrebbe trovarsi sommerso è resa possibile dal comma 2-bis (o 3 che sia, nell´ultima versione). Tale comma costituisce un mostro giuridico quale la Repubblica italiana non aveva mai visto concepire dai suoi legislatori. Infatti esso permette nientemeno che di derogare, ove si siano stipulate le suddette intese tra associazioni dei lavoratori o le loro rappresentanze sindacali operanti in azienda, dalle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2. Non qualcuna: tutte. Al riguardo la formulazione dell´articolo 8 non lascia dubbi: esso mira a stabilire per legge che è realmente possibile derogare da tutte le leggi che hanno finora disciplinato le materie sopra elencate. Dette leggi comprendono non soltanto lo Statuto dei Lavoratori del 1970, il pacchetto Treu del 1997, la legge 30 del 2003 con il successivo decreto attuativo (emanati dalla stessa maggioranza di governo), ma pure le centinaia di disposizioni legislative introdotte dagli anni 60 in poi che si trovano citate in calce a ogni manuale di diritto del lavoro (si veda ad esempio quello del compianto Massimo Roccella). Oltre che ignorare, ma per il governo attuale son piccolezze, gli articoli 3 e 39 della Costituzione.
Di fronte a una simile mostruosità, eventuali accordi tra i sindacati confederali che si impegnassero a rifiutare ogni deroga di quella parte dell´articolo 8 riguardante i licenziamenti senza giusta causa del comma 2 sarebbero evidentemente scritti sull´acqua (a parte l´amenità di sottoscrivere di corsa una deroga a un decreto millederoghe). Per un verso perché rappezzare il vulnus dell´articolo 18 dello Statuto sarebbe certamente utile; ma al prezzo di accettare il gravissimo stravolgimento di tutte le regole concernenti l´organizzazione del lavoro e della produzione che il decreto pretende di introdurre. Per un altro verso, l´ambiguo comma 1 spalanca palesemente la porta a ogni genere di degrado dell´attività dei sindacati: dalla contrattazione sindacale al ribasso (nota fattispecie del diritto del lavoro), alla formazione di mille sigle locali, alla concreta possibilità che anche rappresentanze sindacali delle maggiori confederazioni cedano sul piano locale a pressioni, lusinghe, o calcoli di convenienza. A sommesso avviso di chi scrive, l´articolo 8 del decreto sulla manovra economica non è in alcun modo emendabile o assoggettabile a pattuizioni. Se non si vuole far fare un salto indietro di mezzo secolo alla nostra civiltà del lavoro, va semplicemente cancellato.

Da La Repubblica del 15/09/2011.

giovedì 15 settembre 2011

PD Sangiustino, raccolta firme per l'abrogazione dell'attuale legge elettorale


Azione volta ad abrogare il "porcellum".
Il Circolo del Partito Democratico di San Giustino organizza per domenica 18 settembre, dalle ore 9 alle 13, un gazebo in Piazza del Municipio per raccogliere le 500 mila firme, necessarie entro il 30 settembre, atte a promuovere il Referendum nazionale per l'abrogazione dell'attuale legge elettorale, passata alla storia come “Porcellum”. È sotto gli occhi di tutti come l’attuale legge elettorale sia antidemocratica e pro-casta, visto che sono pochi capi partito a decidere chi deve essere eletto, mentre gli elettori si devono adeguare alle loro indicazioni. In aggiunta va ribadito come durante l’attività parlamentare gli eletti debbano adeguarsi servilmente a quanto stabiliscono i capi-partito, pena il mancato inserimento nelle posizioni “giuste” delle liste all’elezione successiva. Poiché l’abrogazione della legge 270/2005 farebbe rivivere le leggi del 1993 (n. 276 e n. 277), che avevano introdotto il sistema elettorale misto, il cosiddetto “Mattarellum”, con cui si era votato sino al 2001, il Partito Democratico nazionale ha presentato una propria proposta di legge elettorale “maggioritario a doppio turno con quota proporzionale'”, che prevede una quota del 70 per cento dei seggi in collegi uninominali maggioritari a doppio turno e una quota del 30 per cento con metodo proporzionale, dove viene garantita la parità di genere con il principio di alternanza. Questa è una proposta fondamentale, importantissima per le sorti democratiche del nostro paese, e per questo ci auguriamo che, una volta abrogato il “Porcellum”, essa si possa discutere e approvare in Parlamento.

domenica 11 settembre 2011

11 settembre 1973 - 2001 - 2011

Oggi si ricordano due momenti storici importanti:

  • 11 settembre 1973 a Santiago del Cile il colpo di stato contro il governo democratico e l'assassinio di un presidente coraggioso: Salvador Allende




  • 11 settembre 2001 a New York l'attentato alle torri gemelle e l'inizio di nuove guerre fra occidente ed oriente




Leggo su Internet che alcuni contrappongono le due ricorrenze. 
Voglio metterle insieme, in un ricordo comune delle difficoltà si incontrano nel percorso ancora in gran parte da fare verso la meta della civile e democratica convivenza. 

L'ITALIA DI DOMANI


Il testo integrale dell'intervento di Pier Luigi Bersani Segretario Nazionale del PD



Prima di ogni altra cosa, anche da me e a nome vostro un abbraccio a ciascuno dei nostri volontari che hanno il posto d’onore di questa Pesaro in festa. Un grazie ai volontari di questa e delle altre 3.000 Feste del Partito Democratico. Siamo al nostro record. Le feste crescono e il Partito cresce. Con il volto dei nostri volontari noi presentiamo all’Italia il meglio di quello che siamo, così come tutti i volontari d’Italia, nel sociale, nel civile, nell’ambiente e nella cultura, sono il meglio del nostro Paese. E’ l’Italia che ci piace di più, l’Italia popolare, solidale e onesta, l’Italia che fa il proprio dovere e che si mette a servizio, l’Italia che si rimbocca le maniche e che dà una mano. Questa Italia la si può trovare negli stand delle nostre Feste, dove ognuno può incontrare donne e uomini, nuovi italiani, anziani e tanti giovani. Giovani di quelli che conoscono internet, facebook e twitter e che ci dicono di una modernità possibile e vera, di una rete che non ti imprigiona ma che fa crescere la tua libertà di pensiero e la tua voglia di stare con gli altri. 

Grazie a Pesaro, città civile, meravigliosa e accogliente, grazie ai suoi cittadini, ai suoi amministratori, grazie ai dirigenti pesaresi e marchigiani del Partito Democratico per lo sforzo che hanno prodotto e per lo splendido risultato.
Pesaro, le Marche: la civilissima Italia di mezzo così cara al Partito Democratico. L’Italia in cui il lavoro, la natura, la cultura si sono date la mano da sempre, fino a produrre la cifra più alta e riconoscibile della qualità italiana. 



La Festa di Torino e quella di Pesaro hanno scandito il 150° dell’Unità d’Italia. Salutiamo chi la rappresenta con straordinaria forza e dignità: il nostro Presidente Giorgio Napolitano. Diciamogli ancora una volta che ci sentiamo figli dell’Unità del Paese e figli fedeli della sua Costituzione, la più bella del mondo! Il 150° ha riscaldato il cuore degli italiani, i nostri cuori. Con la coccarda tricolore ci siamo sentiti a nostro agio. La destra no. Noi sì. Noi ci sentiamo patrioti, senza se e senza ma. Ci siamo ripresi questa grande parola, patriota, una parola violentata e usurpata dal nazionalismo e dall’imperialismo del primo novecento. La parola che fu prima dei giacobini, poi dei democratici, degli irredentisti e infine settanta anni fa dei resistenti, dei liberatori, dei costituenti. La parola del 25 Aprile, data sacra che abbiamo difeso e che nessuno cancellerà. 

Non ci sequestreranno più le parole, parole come libertà; non ci sequestreranno più canti, canti come Va Pensiero. Basta, ce lo riprendiamo quel canto, e lo riconsegniamo a tutti gli italiani. Continueremo a tener vivo il nostro patriottismo costituzionale. Annuncio qui che la prossima festa Nazionale del Partito democratico si terrà a Reggio Emilia, città del Tricolore.
E riaffermiamo qui da Pesaro la nostra identità di Partito. Partito di patrioti, di autonomisti, di riformatori. Partito del lavoro, della Costituzione, dell’unità della Nazione. Partito popolare del secolo nuovo. E affermiamo i nostri valori: l’uguale dignità e libertà di tutte le donne e gli uomini del mondo, la solidarietà, il civismo, la responsabilità verso gli altri e verso la natura. Valori che vogliamo si riconoscano in ogni piccola o grande cosa che facciamo, convinti come siamo, lo abbiamo detto più volte, che guardando il mondo con gli occhi dei più deboli si può fare una società migliore per tutti.

Fra Torino e Pesaro, un anno cruciale ha segnato un culmine della più grave crisi che le società sviluppate abbiano conosciuto dal dopoguerra ad oggi. Quel culmine ha sorpreso l’Italia nel luogo dove non avrebbe dovuto essere: sul fronte più esposto, nella situazione più grave e più rischiosa. No, la settima potenza industriale del mondo, un paese fra i primi dieci più ricchi, non avrebbe dovuto trovarsi al centro della tempesta. La crisi è mondiale, certamente. E’ mondiale. E noi abbiamo un’idea delle sue cause. Non è la stessa idea di chi ci ha portati fin qui, di chi ci ha portati al disastro e ancora dirige il traffico, ancora propone le sue rovinose ricette. A cominciare dagli Stati Uniti, invece di far crescere e remunerare il lavoro, invece di garantire redistribuzione della ricchezza e progressività fiscale, invece di promuovere sicurezza sociale, si è spinto su un abnorme debito privato che la finanza ha trasformato in un enorme castello di carta. Il ciclo conservatore ha fornito la sponda politica e culturale allo sviluppo disastroso di quel meccanismo. Adesso quel debito privato e quel castello di carta sono diventati debito pubblico. Un debito che si fa ricadere sugli investimenti, sull’occupazione, sul welfare provocando una stagnazione economica che rischia a sua volta di aggravare quel debito. Una drammatica spirale che aggredisce ad uno ad uno i Paesi più esposti senza in realtà risparmiare nessuno. E ancora le forze e i meccanismi e le politiche economiche che ci hanno portati fin qui pretendono di spiegarci come se ne esce! Ancora non si affaccia quello che in realtà ci vorrebbe: una visione politica capace di rivolgersi all’economia reale, di far sì che gli scambi globali non determinino diseguaglianze colossali e pericolosi squilibri; una visione politica capace di produrre un controllo democratico dei movimenti di capitale e della finanza e di orientare lavoro, investimenti e consumi verso modelli di crescita che privilegino i beni comuni e l’equilibrio sociale e ambientale. 

Sotto a tutto questo, si nasconde un problema ancor più di fondo. Una crisi della democrazia e della politica che perdono efficacia e quindi credibilità perché non si mostrano attrezzati a dominare gli sconvolgenti e repentini mutamenti di questa fase, di governare fenomeni globali che si scaricano senza controllo alla porta di casa dei cittadini: dalla finanza ai riscaldamento del pianeta, dalle migrazioni agli orientamenti della ricerca sensibile, dalla concorrenza in dumping sulle merci e sul lavoro, alla pace e alla guerra nei diversi angoli del mondo. Sono fenomeni che scuotono modelli sociali, economici e fiscali che ci hanno accompagnati fin qui, in particolare nella vecchia Europa. Si sparge l’idea che le cose non potranno essere come prima, senza che si sappia precisamente come saranno, domani, le cose. Ecco allora aprirsi lo spazio per le paure, per le scorciatoie difensive, per messaggi populisti e qualunquisti che si presentano con il volto della medicina e sono invece un pezzo della malattia. 

E’ questa la carta che le destre hanno giocato in modo vincente in Europa, la carta che le ha aiutate a vincere ma che oggi impedisce a loro di governare i problemi e di indicare un orizzonte. Dopo l’Euro e nella globalizzazione, la destra ha guidato l’Europa verso un ripiegamento nella dimensione nazionale, regionale, e corporativa. Difendersi in luoghi e in interessi omogenei per salvarsi: questa fallimentare ricetta ha fatto strada e ha azzoppato la prospettiva europea. Da madre benefica, l’Europa, anche per difetti nella sua costruzione da cui le forze progressiste non sono rimaste immuni, è diventata matrigna e davanti alla crisi ci siamo trovati privi del nostro fondamentale presidio. Ecco allora, da Pesaro, un messaggio che stiamo portando e che porteremo con più forza a tutti i progressisti europei. Nei prossimi dodici mesi si voterà in Spagna, in Francia, in Danimarca, in Polonia, in Romania, in Slovenia, in Serbia, in Croazia, in Lettonia forse in Italia e dopo pochi mesi in Germania. Proponiamo di portare a compimento una piattaforma comune dei progressisti che rilanci il sogno europeo. Nel ripiegamento vince la destra. Il sogno europeo è la bandiera dei progressisti. Deve rinascere, questo sogno, nella concretezza drammatica di questa crisi. Strumenti europei per il debito, per gli investimenti e la crescita; un’armonizzazione delle politiche economiche e fiscali. Interventi che facciano pagare alla finanza e non all’occupazione e al welfare quel che la finanza ha provocato; una sola politica estera, una sola politica di difesa, una voce sola nel mondo. Siamo il continente più ricco e più forte, la più grande potenza industriale, il più ricco mercato interno. Il mondo aspetta da noi europei un contributo vero. Divisi non contiamo nulla e a uno a uno finiremo nelle retrovie del mondo nuovo. Tutti assieme possiamo prenderci il nostro ruolo e darci un futuro. E noi un futuro lo vogliamo, lo pretendiamo, per i nostri figli, per l’Italia di domani.

E l’Italia, in questa Europa? Pensiamo amaramente dov’è finito il nostro antico destino di anticipatori. Fummo antesignani dell’Europa con Altiero Spinelli e ci siamo ritrovati ad essere anticipatori, propagandisti e alfieri della risposta populista. Con Berlusconi e con la Lega ecco la ricetta che la destra italiana ha offerto all’Europa: riti domestici, piccole patrie, regressioni democratiche e civiche di ogni genere, modelli personalistici sconosciuti alle democrazie del mondo, ostilità al diverso, ripiegamenti corporativi, una predicazione antistato e antipolitica, una comunicazione ossessiva e demagogica… e il risultato qual è stato? Siamo diventati strapuntino dell’Europa e del mondo, abbiamo perso colpi e posizioni in ogni campo misurabile della vita economica e civile, siamo finiti nell’epicentro della crisi. Ecco dunque le accuse che rivolgiamo al Governo e alla maggioranza di Berlusconi e della Lega. Non certo di aver provocato la crisi mondiale! Non li accusiamo di questo! 
Li accusiamo di aver accompagnato, governando otto anni degli ultimi dieci, lo scivolamento impressionante dell’Italia sotto ogni parametro di confronto con i Paesi europei. Li accusiamo di aver mentito agli italiani occultando ed ignorando la crisi e di aver aggravato la crisi con politiche dissennate. Di questo li accusiamo! Li accusiamo di essersi occupati dei fatti loro e non dei fatti degli italiani. Li accusiamo di aver leso la coesione nazionale e la coesione sociale, di aver allontanato Nord e Sud, di aver scelto consapevolmente la divisione del mondo del lavoro, di aver indebolito i diritti del lavoro e di aver chiamato sussidiarietà l’arretramento dei doveri dello Stato e il venir meno di fondamentali regole comuni. Di questo li accusiamo! Li accusiamo di aver colpito la scuola, la ricerca, la conoscenza recando una drammatica lesione al muro portante del nostro futuro. Li accusiamo di aver svilito la dignità della donna; di aver svilito agli occhi del mondo la dignità della nazione. Li accusiamo infine di aver voluto e di voler sopravvivere truccando le carte senza avere più né la forza per governare, né la fiducia degli italiani e di lasciare il Paese senza timone e senza rotta, senza un orizzonte credibile, senza la possibilità di un richiamo giusto e forte ad uno sforzo comune per la riscossa. Di tutto questo li accusiamo!

Ma non ci fermiamo alle accuse. Noi non abbiamo in testa Berlusconi. Noi abbiamo in testa l’Italia, gli italiani e le prospettive dei nostri figli. Partiamo dunque da qui. E ci chiediamo e chiediamo: qual è la sfida che l’Italia ha davanti? La nostra risposta è questa: l’Italia è di fronte, allo stesso tempo, sia ad una emergenza drammatica sia ad una esigenza profonda di ricostruzione democratica e sociale dopo dieci anni di sbandamento e di perdita di futuro. Affrontare con decisione il presente e conquistarci un futuro. Ecco il compito al quale guardiamo con determinazione e con fiducia. Davanti a questo compito una forza come la nostra dà le sue risposte programmatiche e politiche e cioè dice che cosa bisogna fare e chi deve farlo. Noi lo diciamo. Lo dicano anche gli altri, finalmente! Le forze politiche, certo, ma non solo loro, lo dica chiunque abbia un ruolo di direzione o di orientamento nella società. E’ tempo di parole chiare. Il conformismo di questi anni è stato complice di chi ci ha portato fin qui. Adesso almeno si prenda atto che il Partito Democratico ha sempre detto la verità, non si è mai staccato dalla realtà, ha visto quello che stava arrivando, ha sempre avanzato le sue proposte alternative. Chi è onesto adesso deve riconoscere tutto questo e questo ci dà oggi il diritto di essere ascoltati come si ascolta una forza di governo.

L’emergenza, dunque. Inutile interrogare ogni giorno borse e spread per avere segnali che durano un giorno. Le cose sono chiare. A pochi passi da noi c’è un precipizio finanziario che può destabilizzare non solo noi, ma l’Europa. Se siamo troppo grandi perché gli altri ci abbandonino, siamo anche troppo grandi perché gli altri ci salvino. Che cosa fare, dunque, qui e subito, che cosa fare dopo manovre, manovrine, aggiustamenti di manovre e manovrine, dopo 49 voti di fiducia che hanno solo moltiplicato la sfiducia? Quest’ultima manovra in corso non può metterci fuori dai guai. Questa manovra dà per scontate cose che non possono succedere. Non si possono togliere venti miliardi dall’assistenza o dalle detrazioni fiscali, non è possibile! Questa manovra non mette sotto controllo vero la spesa corrente. Questa manovra non chiede soldi a chi ce li ha, chiede soldi a chi non ce li ha! Tra assistenza, detrazioni, aumento dell’IVA, taglio drammatico ai servizi degli Enti Locali, tutto il peso cade sui ceti popolari e sui ceti medi. E cade sull’occupazione attraverso l’azzeramento degli investimenti e l’assenza totale di misure per la crescita. E allora, fare presto, sì, ma fare bene! Fare solo presto senza fare bene significa essere daccapo il mese prossimo in condizioni sempre più difficili. Mentre dunque noi siamo in ogni luogo, in ogni assemblea,in ogni piazza in cui si protesta rivendicando una manovra più credibile perché più equa, noi siamo pronti alla Camera, come eravamo pronti al Senato, a dare il contributo delle nostre proposte. E non si dica per favore che quel che proponiamo non è possibile! Per dare addosso alla gente comune è sempre tutto possibile, quando si disturba chi è al riparo tutto diventa impossibile. Perché dovrebbe essere impossibile mettere norme più stringenti per risparmi della pubblica amministrazione e della politica? Perché dovrebbe essere impossibile una imposta sui grandi patrimoni immobiliari, che hanno tutti nel mondo? Perché dovrebbero essere impossibili misure vere, efficaci sull’evasione fiscale, presenti negli altri Paesi europei? Perché sarebbe impossibile chiedere un contributo straordinario agli scudati anonimi che hanno pagato il 4% invece del 40? Perché sarebbe impossibile fare liberalizzazioni vere per i farmaci, la benzina, le assicurazioni, le professioni? Perché sarebbe impossibile ricavare da tutto questo un po’ di risorse per stimolare investimenti e occupazione a cominciare dagli interventi degli Enti Locali che sono stati invece massacrati? E perché non dovrebbe essere possibile, invece di colpire a tradimento con l’articolo 8 l’accordo del 28 giugno, far leva piuttosto su quell’accordo per mettere in moto un po’ di crescita? Volete davvero una manovra forte? Ecco una manovra forte! E sia chiaro di fronte ad esigenze pressanti per il pareggio di bilancio, noi siamo pronti anche ad accrescere la portata delle nostre proposte, ma sempre in quelle due direzioni: 1°) risparmio della pubblica amministrazione; 2°)risorse dalla rendita, dalle ricchezze, dai patrimoni. 

Ricordiamoci sempre che il 10% degli italiani possiede il 50% delle ricchezze del paese. Se c’è da trovare altri soldi si trovano lì! Ci sono diversi modi per trovarli, abbiamo le nostre idee, ma si trovano lì, in quel 10% di italiani che sono stati messi completamente al riparo. Infine, a proposito di emergenza, diciamo chiaro che non si può raccontare né agli italiani né al mondo che chi ci ha portato in questa situazione può davvero tirarcene fuori. Se non si annuncia una novità politica, come altri hanno fatto in Europa; se non si annuncia un percorso politico nuovo la fiducia non tornerà e gli italiani butteranno al vento i loro sacrifici. E’ per questo che confermiamo la nostra disponibilità a discutere di un passaggio, di una transizione che sia affidata ad un Governo più credibile davanti all’opinione pubblica nazionale ed internazionale, credibile per discontinuità, per autorevolezza, per un programma equo ed efficace di stabilizzazione. Un Governo che possa reggere l’emergenza, dare il tempo per una riforma elettorale e portarci ad un confronto elettorale con nuovi protagonisti, nuove idee e, finalmente, con uno sguardo sul futuro!

Sappiamo bene che tutto ciò presuppone un passo indietro del Governo o della sua maggioranza o di una parte della sua maggioranza. Sento finalmente qualche voce autorevole, Confindustria e non solo lei, che allude all’esigenza di un passo indietro. Ma noi non abbiamo più il tempo per le curve larghe, non l’avevamo più nemmeno sei mesi fa! Bisogna parlare chiaro e forte. Berlusconi deve togliersi di lì o ci porterà a fondo. Questa disponibilità non c’è? Questa responsabilità non c’è? Ma allora non ci si dica che si può andare avanti così fino al 2013! Questo sarebbe il disastro. Se non si è disposti a un percorso nuovo, si anticipi l’appuntamento elettorale. Questa è la nostra posizione. Nessuno ci potrà zittire, la diremo tutti i giorni e la diremo non per interessi di bottega ma per responsabilità nazionale. C’è un problema politico, in questo Paese. Averlo negato ci ha portati sull’orlo del precipizio. Chi lo nega ancora si prende una grande responsabilità. 

L’emergenza ci accompagnerà in ogni caso verso un nuovo appuntamento elettorale. Come immaginarlo? Come possiamo immaginare un grande confronto elettorale? Forse come un passaggio da un Governo all’altro in una situazione normale? No, certamente no. Bisogna immaginarlo come un vero passaggio di fase, come un confronto decisivo sulla ricostruzione del Paese. E’ la ricostruzione del Paese che può darci l’Italia di domani! La prossima legislatura avrà dunque necessariamente un carattere costituente.

C’è forse bisogno di spiegare perché? Non lo si vede chiaro? Non si vede chiaro, ad esempio, che questa notte dove tutte le vacche sono nere, dove si confondono costi delle istituzioni e della democrazia con i costi della politica, dove si mettono assieme i comuni e le province con i vitalizi, il finanziamento dei partiti con i fannulloni della pubblica amministrazione e così via, con il risultato di non cavare mai un ragno dal buco; non si vede chiaro, che tutto questo allude ad un problema: che da vent’anni non c???è una riforma vera, seria, ordinata né dello Stato né delle istituzioni né della Pubblica Amministrazione né della politica? E non si vede chiaro, per fare un altro esempio, che da anni e anni noi cresciamo meno degli altri, diamo lavoro meno degli altri, perdiamo il doppio degli altri nelle crisi e recuperiamo meno della metà degli altri nelle incerte riprese; non si vede che questo vuol dire che ci sono problemi di fondo, riforme di fondo da fare, che c’è una produttività del sistema che non gira, che c’è da rinnovare il patto sociale? E non si vede infine che se la sfiducia verso la politica monta, che se ogni giorno si alimenta il discredito verso l’unico strumento che è nelle mani dei cittadini per darsi un futuro, e cioè la politica, è perché non ci sono passi avanti su un nuovo statuto della politica, della rappresentanza, dei partiti e del loro rapporto con la società? 
Se stiamo al di sotto di queste esigenze radicali, se non scaviamo più a fondo, non ne usciremo; noi stessi non potremo essere capiti; finiremo nel mucchio e non potremo suscitare nessuna speranza, nessuna fiducia. Il problema è di sistema, e questo problema va guardato in faccia!

Uscire dunque dalla fase del berlusconismo, del populismo vuol dire prendere atto fino in fondo della loro colpa più grave, e cioè il blocco di ogni riforma. Quel modello populista è orientato necessariamente ad inseguire il sondaggio del giorno dopo, è orientato a galleggiare, a negare i problemi (come ha fatto con la crisi) o a utilizzare i problemi e riprodurli per il consenso (come ha fatto per l’immigrazione) o a sfruttare i problemi quando sono innegabili per allestire il miracolo che dura un giorno ( come ha fatto per L’Aquila, carissima città a cui mandiamo anche da qui la nostra solidarietà e la conferma del nostro concreto impegno). Se vuoi garantirti il consenso del giorno dopo non sei in grado di cambiare. Se vuoi cambiare devi investire il consenso di oggi e rischiarlo in nome del consenso di domani. Questo è impossibile per il populismo, è possibile solo per un riformismo che viva in una democrazia rappresentativa funzionante!

Se è così, ed è così, la ricostruzione è una sfida di riforme. Di alcune riforme da fare sul serio, affrontando con decisione i cambiamenti.

Io non voglio qui fare l’elenco delle nostre proposte. Le rilanceremo nei prossimi mesi nel progetto per l’Italia sul quale da tempo lavoriamo. Voglio riassumere qui il senso di queste proposte. Innanzitutto noi dobbiamo arrivare ad una democrazia rappresentativa riformata, ad uno Stato più leggero, più autorevole e forte. Questo passa per una riduzione drastica della struttura e dei meccanismi parlamentari, a cominciare dall’immediato dimezzamento del numero dei Parlamentari; passa per un federalismo con i piedi per terra affidato ad autonomie fortemente semplificate e disboscate dalla pletora di società e strutture, per un piano di efficientamento industriale di ogni pubblica amministrazione, per una riforma elettorale vera che, che proponiamo con chiarezza, che può garantire governabilità e ridare lo scettro ai cittadini e che può ricevere uno stimolo utile, un impulso dall’iniziativa referendaria che ospitiamo sulle nostre feste; passa per la difesa e il rilancio del tema dei diritti civili, a cominciare dall'approvazione della legge contro l'omofobia; passa per norme sui conflitti di interesse, per norme antitrust sulla comunicazione, per una riforma della rai tv, per un efficientamento della giustizia per i cittadini, per norme sugli appalti e sui reati finanziari contro le cricche e le mafie. Riforme concrete, sulle quali stringere l’impegno con gli elettori. E quanto al senso di una ricostruzione economica e sociale: al centro la conoscenza e il lavoro! Proporre un nuovo, grande obiettivo dopo l’Euro: il lavoro per la nuova generazione! Senza abbandonare nessuno dei non più giovani, ma lavorando decisamente sul futuro e scegliendo l’occupazione dei giovani e delle donne come criterio di misurazione di tutte le politiche. Il lavoro dunque, dei dipendenti, degli artigiani, dei commercianti, dei professionisti, degli artisti. Il lavoro che rimette per il verso giusto la scala dei valori di una società; il lavoro che non è solo indispensabile per mangiare o mantenere la famiglia, ma che è la libertà e la dignità di una persona. Attorno a questo tutto il resto: la conoscenza, la scuola, la ricerca, la cultura, innanzitutto e sopra ogni cosa, aumentare i livelli di scolarizzazione non diminuirli! E per aumentarli c’è bisogno di insegnanti, e di insegnanti motivati non insultati! Una riforma fiscale che alleggerisca il lavoro e chi dà lavoro, e carichi su rendite, ricchezze ed evasione uscendo finalmente dalla vergognosa infedeltà fiscale che ci allontana da ogni altra democrazia. Un welfare sul quale non si faccia cassa ma si facciano riforme, in cui l’innalzamento progressivo, flessibile, volontario dell’uscita dal lavoro significhi una rivalutazione delle pensioni dei giovani; in cui far costare meno un’ora di lavoro stabile significhi far costare di più un’ora di lavoro precario; un welfare dove certamente si disboschi il superfluo o l’inessenziale, ma si garantisca l’intervento sui bisogni radicali, perché la sussidiarietà c’è dove c’è lo Stato, non dove lo Stato scompare; e questo vuol dire che sui bisogni fondamentali: salute, istruzione e sicurezza non può essere il mercato che detta il compito, ma è lo Stato che trasforma la solidarietà in diritto, a prescindere dai soldi che uno ha in tasca. Fuori da lì, un mercato più aperto con regole liberali e non più con far west liberisti o bardature corporative: concorrenza, diritti dei consumatori, nessuna posizione dominante e che ognuno possa fare ciò che sa fare, ciò per cui ha studiato. E nuove chiavi, nuove frontiere per la crescita: ambiente, efficienza energetica, salute, ricerca per nuovi prodotti italiani, tecnologie da mettere nei nostri settori di tradizione, reti d’impresa, crescita di dimensione delle imprese, internazionalizzazione, con la priorità al Sud. Il Sud oggi abbandonato e umiliato e che è la nostra vera risorsa potenziale, l’opportunità che ci resta per crescere tutti, Nord, Centro e Sud. E un patto sociale nuovo, a partire dall’accordo del 28 giugno sul sistema di contrattazione, sulla rappresentanza e rappresentatività; un accordo pugnalato dal Governo. Da lì, invece, la fioritura di una nuova concertazione che dia flessibilità e convenienza a chi dà lavoro, ma tenga assieme questo Paese e non lo esponga alla frantumazione o a una concorrenza al ribasso, e lo sospinga invece ad una prospettiva di qualità e competitività della nostra struttura produttiva. Dunque, una riforma sociale e liberale: questo è il senso compiuto della nostra politica economica.
Ed infine il senso, nelle cose che proponiamo, di una ricostruzione della politica. Noi su questo abbiamo un’idea, e l’abbiamo da quando siamo nati, da quando ci siamo chiamati Partito Democratico. Siamo i soli che si chiamano Partito. I soli in Italia, ma in buona compagnia, se ci pensate, con tutti i Paesi democratici del mondo. Dico tutti i Paesi. In questa nostra scelta c’è un’idea di politica e di democrazia. Di una politica come partecipazione, come processo collettivo. Di una politica che non è solo comunicazione e neanche solo appuntamento elettorale. Di una politica che non è strumento di una persona sola o di poche persone ma che è occasione di espressione, di presenza e di emancipazione di tanti e di quelli in particolare che da soli non ce la farebbero mai. Un’idea di democrazia, che rifiuta i frutti avvelenati dell’antipolitica, ma che pretende una politica sobria, buona, semplice, pulita, una politica che costi meno e che decida di più. Una politica che rivendica il suo ruolo e che conosce il suo limite. 

Questo limite non è solo laddove si affacciano profonde convinzioni etiche e religiose, che non ti esimono mai dal dovere della mediazione e della decisione, ma devono avere in ultima analisi il riparo della libertà di coscienza. Il limite della politica è anche laddove comincia la libera espressione, la libera azione di una società civica, di un civismo che vuole esprimersi direttamente e che rivendica giustamente una sua, pur parziale, politicità. Uno dei frutti avvelenati di questi vent’anni è stata la contrapposizione fra società civile e politica fino ad arrivare a volte ad un paradosso, ad un ossimoro: un civismo antipolitico! No, basta, qui c’è da ricostruire. La democrazia dell’Italia di domani deve riconoscere il ruolo dei movimenti, delle organizzazioni sociali e civili e assieme di partiti che sappiano stare all’essenziale del loro ruolo: una funzione di progetto, di unificazione, di garanzia dell’azione di governo. Una buona politica e un nuovo civismo devono darsi la mano. Non abbiamo sostenuto forse e non sosteniamo, stando sotto il palco e arrotolando le nostre bandiere, il movimento delle donne che ha dato il via ad un risveglio civico nel Paese e che certo non è stato estraneo ad uno straordinario rafforzamento della presenza femminile in tutte le nuove occasioni di mobilitazione e nel grande appuntamento delle elezioni amministrative? E allo stesso modo non abbiamo sostenuto i referendum? E allo stesso modo non abbiamo sostenuto le iniziative di ogni soggetto (Enti Locali, Sindacati, Associazioni e Organizzazioni Sociali) che a loro modo e con la loro autonomia si sono mosse e si muovono per contrastare una manovra ingiusta? In tanti campi i partiti dovranno fare un passo indietro per essere più forti nel loro ruolo proprio . Recuperare essenzialità e venir via da piccoli o grandi privilegi così da poter combattere ogni privilegio. Vitalizi, poltrone di troppo, doppie cariche, servizi immotivati. Via tutto questo, e per questo una sessione parlamentare straordinaria che prenda decisioni, secondo proposte che abbiamo già consegnato alle Camere. E rinsaldare soprattutto un concetto di onestà e trasparenza nella politica. Un impegno ineludibile, che riguarda anche noi. Anzi, prima di tutto noi, perché noi siamo noi; diversi non per cromosomi, ma per scelta politica e civile! Noi che vogliamo mettere nel nostro Pantheon persone che non si sono conosciute ma che noi abbiamo conosciuto; Angelo Vassallo, il Sindaco pescatore; Mino Martinazzoli, politico rigoroso e perbene. Entrambi vogliamo salutare, da qui non solo con un applauso ma con un impegno! Non c’è stato e mai ci sarà, anche in passaggi difficili o dolorosi, mai ci sarà da noi un diverso peso fra i diritti e le tutele di un politico, di un comune cittadino o di un immigrato!Mai da noi un ostacolo al corretto svolgimento del compito della Magistratura, che è quello di arrivare alla verità! Sempre un passo indietro, pur nella presunzione di innocenza, di un politico investito da indagini rilevanti rispetto a compiti di rappresentanza istituzionale o di partito! E codici interni e regole ancora più stringenti, sui quali stiamo lavorando nella nostra conferenza di Partito. Codici per noi, intanto, ma non solo per noi: per il sistema! Nell’epoca della personalizzazione, ad esempio, le campagne elettorali costano troppo, sia che si parli di finanziamento alla campagna sia che si parli di fund raising Non va bene. Bisogna mettere dei limiti e dei criteri più stringenti. Non vanno bene i doppi incarichi. Vanno rafforzate nettamente le incompatibilità, i codici antimafia vanno resi esigibili per ogni candidatura e così via. Per tutto questo, ed altro ancora, non solo rafforziamo i nostri codici, ma proponiamo una legge sui partiti, su tutti i partiti. Partiti sì, ma partiti nuovi, totalmente trasparenti nei meccanismi di partecipazione, di finanziamento, di selezione. 

E’ con la forza di questa assunzione di responsabilità e di questi comportamenti politici che noi diciamo: attenzione! La critica la accettiamo, l’aggressione no! Chi fa circolare contro di noi teoremi assurdi o leggende metropolitane, chi aggredisce con calunnie l’unico Partito nazionale che fin dalla sua nascita ha un bilancio certificato si prende una denuncia e una richiesta di danni! Non passerà il tentativo di metterci tutti nel mucchio. Se Berlusconi facesse un passo indietro per ogni inchiesta che lo coinvolge sarebbe ad Ancona!

Care Democratiche, cari Democratici,
sia la fase di emergenza, sia quella di ricostruzione vivono e vivranno in un vortice di cambiamenti epocali che hanno pochi precedenti nella storia. In venti anni di globalizzazione la ricchezza del mondo è cresciuta di tre volte, il commercio dei prodotti è cresciuto di venti volte, il rapporto tra finanza ed economia è cresciuto di ottanta volte. Vuol dire che si è in un vortice impetuoso e che cambiano tutte le gerarchie. La freccia del mondo corre velocemente da ovest verso est, da nord verso sud. La stessa stabilità del mondo non può più garantirla nessuno da solo, e il nuovo condominio è ancora tutto da organizzare. Tra pace e guerra, grandi migrazioni, squilibri dell’economia mondiale, rischi ambientali, la strada buona non è ancora trovata. Si sentono solo le scosse telluriche di novità che galoppano. Miliardi di esseri umani escono dalla miseria ma le immagini di bambini profughi e affamati del Corno d’Africa e i morti senza nome nel fondo del Mediterraneo sono un insulto insanabile alla nostra comune umanità. Gli anni che sono passati dall’attacco alle due torri che commemoriamo domani, lasciano ancora senza risposta chiara l’esigenza, dall’Afghanistan fino al nord Africa, che le armi della politica sostituiscano finalmente la politica delle armi. Mentre lo sguardo del mondo era altrove, si è acceso nel Mediterraneo, nel Medio oriente, nel Golfo qualcosa di inimmaginabile: Mohamed Bouazizi, giovane diplomato col suo carretto di frutta che offriva per vivere, si è bruciato meno di un anno fa per il sequestro del suo carretto e l’umiliazione per lo schiaffo ricevuto da un poliziotto. Da quel fuoco Mediterraneo e Golfo e l’intero Medio Oriente si sono incendiati e hanno chiesto libertà e dignità. Dittatori hanno gettato la maschera e dove il mondo vedeva, come in Libia, la farsa, ha potuto vedere la tragedia; e dove il mondo leggeva moderazione, come in Siria, il mondo ha visto i cannoni sparare sulla gente. I Palestinesi chiedono giustamente in questi giorni all’ONU di accettarli come stato, ma i negoziati diretti e indispensabili con Israele sono pericolosamente fermi; pericolosamente, per i destini di tutta l’area e del mondo intero. Davanti a questo mondo nuovo in tumulto, noi dobbiamo assolutamente recuperare il profilo dell’Italia che si è perduto. Dobbiamo essere quelli che portano l’Europa a sud, in appoggio politico ed economico alla transizione democratica, nel Mediterraneo e nei Balcani. E giocare lì la grande carta di un ruolo del Mezzogiorno e della sua riscossa. Dobbiamo tornare ad essere quelli che sanno parlare con tutti, senza far ombra a nessuno; quelli che sanno mettere davvero la cooperazione nel cuore della politica estera; quelli che si fanno trovare nei luoghi dove va il mondo, dove sono gli Italiani, che sono in tutto il mondo, e dove sono le merci italiane, che sono in tutto il mondo. La nostra politica estera non può essere la padania, non possono essere il baciamano e le barzellette di uno che non ha mai messo piede una volta né in India né in Cina. Anche il senso di sé dell’Italia e il senso del suo ruolo in Europa e nel mondo sono da ricostruire. E non sarà cosa da poco, né semplice, né breve.

Ecco dunque. E’ a partire da una visione dell??Italia di domani, di un progetto per l’Italia di domani, che noi avanziamo la nostra proposta politica.

Innanzitutto, noi vogliamo un centrosinistra di governo e stiamo lavorando per questo. Discutiamo con SEL, IDV, Socialisti e formazioni ambientaliste. Vogliamo verificare con loro la possibilità di concordare e rendere chiaro agli italiani un programma di riforme. A noi piace chiamare Nuovo Ulivo questo possibile patto politico e programmatico. Abbiamo ben chiaro che la più recente esperienza di Governo del centro sinistra ha aperto la strada a Berlusconi, per non aver garantito la governabilità ed una coalizione affidabile. Quindi, meccanismi simili all’Unione non li faremo più. Il patto dovrà essere ben solido e avvenire fra soggetti che si rispettano. Non pensi di poter discutere con noi chi prendesse l’abitudine di attaccarci tutti i giorni. Qui non la facciamo a chi grida di più né a chi scavalca l’altro pensando con qualche furbizia di guadagnare uno zero virgola! Queste cose le abbiamo già viste in altri tempi e hanno distrutto la credibilità del centrosinistra. Chi intendesse praticarle ancora, farà da solo. Qui c’è un Paese da governare. Noi abbiamo messo e mettiamo assoluto rispetto per tutte le forze del centrosinistra. Chiediamo fermamente altrettanto. E chiediamo altresì che dal patto di centrosinistra si muova un largo appello a tutte le forze moderate, che non si ritengono di centrosinistra, ma che intendono fare i conti con il modello plebiscitario e lavorare per una ricostruzione del Paese su solide basi costituzionali. Chi è motivato in questo senso può discutere con noi, in modo aperto, che sia un soggetto politico o che si tratti di movimenti, di organizzazioni, di personalità che vogliano sinceramente muoversi per reagire alla deriva di questi anni. A tutti loro diciamo con chiarezza: chi vuole veramente voltare pagina da Berlusconi e dalla Lega e aprire un cantiere di riforme non può pensare di prescindere dal Partito Democratico. Sarebbe un’illusione. Noi siamo aperti ad ogni possibile convergenza con vera disponibilità, ma siamo consapevoli del nostro ruolo, della nostra forza e delle nostre responsabilità. Il recente e clamoroso esito delle elezioni amministrative credo abbia ben descritto quel che intendo dire: tanto la nostra disponibilità quanto la nostra apertura, tanto la nostra responsabilità quanto la nostra forza. 

Ed è su questo soprattutto, infatti, che facciamo affidamento per le prospettive dell’Italia di domani: sul Partito Democratico. Nell’ultima esperienza di governo del centrosinistra il Partito Democratico non c’era. Adesso c’è. Abbiamo fatto tutti assieme, ciascuno con le sue qualità e i suoi limiti, ma tutti assieme, quello che non è mai stato fatto nella storia della politica. Ed è stato un successo. L’ho detto altre volte: siamo troppo giovani per aver risolto tutti i problemi, ma ormai troppo vecchi per esserci sbagliati! Siamo già oggi il primo partito del Paese. Adesso tocca a noi; non da soli, lo sappiamo; ma tocca principalmente a noi! Nelle nostre rappresentanze politiche e istituzionali, nella nostra organizzazione giovanile che saluto qui con un convinto incoraggiamento, sta maturando largamente, diffusamente una nuova generazione. Una nuova generazione che è già in campo, fresca ma non inesperta. Ne abbiamo avuto una prova anche qui a Pesaro. 

La fase di ricostruzione del Paese che si aprirà dovrà vedere in campo questa nuova generazione già sperimentata. La nostra ruota girerà e aiuterà il Paese a cambiare. Toccherà a loro, alle donne e agli uomini della nuova generazione che stanno crescendo nel Partito Democratico. A loro chiedo solo due cose. La prima. Di immaginare il loro percorso dentro la logica di un collettivo, di una squadra, dentro la logica della costruzione di uno strumento utile al Paese perché unito; plurale sì, democratico sì ma libero da faziosità e da personalismi. Un collettivo unito per dare un futuro al Paese. E chiedo a loro una seconda cosa. La mia generazione ha giocato la sua vita e la sua stessa prospettiva personale in un grande vento di cambiamento; un mondo nuovo che si affacciava, la certezza che i tempi stavano cambiando. Voi siete cresciuti in tempi più difficili, davanti ad orizzonti più incerti. E’ più difficile per voi che per noi! Io vi chiedo di non disperdere la speranza di cambiamento, la volontà di cambiamento. Di non disperdere l’indignazione per un mondo che non è giusto; di non rinunciare all’idea di cambiare le cose in nome di un’umanità più vera e più piena. 

Care Democratiche, Cari Democratici,
il nostro compito è quello di riconoscere e accompagnare il disagio profondo, il turbamento del Paese e portarlo ad una fiducia nuova. Il nostro compito è quello di metterci a servizio di un risveglio civico e democratico. Il momento è cruciale. Io chiederò a tutto il Partito nei prossimi mesi un impegno straordinario. Da domani porteremo le nostre idee di riforma “dalle rendite al lavoro”; “uno Stato più leggero e più autorevole”; “una politica sobria”; “in ogni Comune in ogni quartiere”; diamo appuntamento ai cittadini a metà ottobre con assemblee in ogni città.

A fine ottobre avvieremo una iniziativa che non ha precedenti nella storia politica del Paese. Duemila giovani del Sud, ragazze e ragazzi già selezionati e provenienti da ogni Comune del Mezzogiorno e dai nostri Circoli, si troveranno a Napoli. Avvieremo lì un anno di formazione politica in rete sui temi della legalità, del lavoro, dell’istruzione, dell’ambiente, della cultura, della pubblica amministrazione. Vogliamo promuovere su base larga una nuova classe dirigente diffusa sul territorio. Partiamo dal Sud per estendere poi quell’esperienza a livello nazionale. Un grande progetto di formazione politica per riprodurre il nostro carattere di partito democratico e popolare. Chiamo inoltre il Partito ad un impegno e ad una mobilitazione che porti ad una manifestazione nazionale il 5 novembre a Roma a sostegno dell’Italia, delle nostre idee per l’Italia e della necessaria svolta politica. Infine, a compimento del nostro lavoro entro la fine dell’anno una convenzione nazionale per la ricostruzione. Il nostro progetto da discutere con intellettuali, competenze, espressioni sociali e civiche. Il progetto del PD per l’Italia di domani. In questo percorso impegnativo al quale chiamiamo da qui tutto il Partito metteremo la nostra intelligenza e la nostra forza. Ci metteremo al servizio del Paese, faremo in modo che politica e società tornino a darsi la mano. Sappiamo che cosa c’è alla radice di questa lunga crisi; c’è il fatto che abbiamo conosciuto uno statalismo senza lo Stato, una partitocrazia senza i partiti e un moralismo senza la morale. La nostra funzione è quella di ricostruire uno Stato, un partito democratico e popolare, una morale pubblica che io chiamo civismo. Solo questa rivoluzione può portare l’Italia fuori dalla crisi. Noi italiani siamo di fronte ad una prova difficilissima. Ma l’Italia è un grande Paese, gli italiani sono un grande popolo. Riprendiamo il nostro cammino, riprendiamo la fiducia in noi stessi, riprendiamoci il futuro.