La prima parola del titolo che vedete qui sopra è un verbo. Tu sei meno. Vuol dire che mentre studiavi o lavoravi, e – alcuni più di altri – davi il meglio di te stesso per essere pronto o per essere all’altezza o per essere più bravo, avveniva uno strano fenomeno di cui manca la spiegazione: tutto diventava più piccolo. Il tuo valore, il tuo peso, l’utilità di ciò che sai fare, la paga, il desiderio o la necessità di averti in un certo posto o mansione.
“Dobbiamo rispondere alle sfide di un mondo globalizzato”, ti dicono. Il mondo globalizzato chiede sempre un’altra cosa, che non è quella che le persone, per l’esperienza fatta o il corso di studi e di specializzazione, sono in grado di offrire. Come nella messa in scena di un testo o di una partitura soggetti a diverse interpretazioni, c’è da aspettarsi una serie abbastanza vasta di alternative.
A volte le spiegazioni sono costernate e gentili, si attengono al criterio della dura necessità che ha cambiato le carte in tavola. A volte esplode, franco, e persino innocente, il disprezzo, come è accaduto al ministro Brunetta in un convegno a cui erano presenti molti precari della “funzione pubblica” (una volta si diceva “statali”, definizione meno elegante ma molto più solida). Ha detto Brunetta ai precari: “Siete l’Italia peggiore”. Brutta frase, che – come sempre il lapsus – ha una parte di vero. C’è qualcosa di peggio del lavorare su un piede solo, senza sapere se e quando si potrà appoggiare l’altro?
Ma esistono molti percorsi verso la fine o il discredito del lavoro, che sono sorprendenti e imprevisti, oppure sono delle vere rivelazioni. Per esempio, esplode l’azienda modello e si rivela un vermaio, come è accaduto a Parmalat. Oppure l’azienda resta modello ma vende i lavoratori insieme con il prodotto, come è accaduto alla Vodafone. Oppure si vende la stessa azienda, mentre funziona e va bene ed è carica di contratti, con una serie di passaggi di proprietà fino a quando si sperde il filo. L’azienda c’è ma non sai di chi, e se non paga non sai più (né gli interessati né il giudice) a chi rivolgerti. Poi c’è la Fincantieri che “dismette” parti di possenti officine famose nel mondo, per un totale di 2.500 operai e ingegneri, con la modesta motivazione: in un mondo insicuro c’è poca richiesta di navi, fingendo di non sapere che non esiste alternativa tecnologica, e che il mondo insicuro continuerà per forza ad andare per mare.
Se ti fermi a pensarci un momento, ti rendi conto che una formula per definire il mondo in cui viviamo è la seguente: meno paga per chi lavora, meno fondi per chi produce, meno lavoro per chi lo chiede, meno sanità per gli ammalati, meno scuola per i più giovani, meno ricerca per i più preparati, meno risorse per gli Stati al punto da minacciare la bancarotta di interi Paesi.
C’è una contraddizione: il mondo resta ricchissimo. Anzi, non è mai stato tanto ricco. Quello che conta è portare via i soldi, subito e tanti. La visione non sarà la stessa che sta pesantemente cambiando la concezione della vita e della convivenza nel mondo? I nuovo protagonisti sono piccoli e grandi Madoff, non quanto a tecnica, ma quanto a “filosofia”. Però che cosa sappiamo delle autorità monetarie e finanziarie del mondo che tutelano costantemente le ricchezze accumulate, spostando tutto il peso sulla massa di coloro che lavorano sempre di più e guadagnano sempre di meno in nome di non si sa quale penuria?
Un giovane ingegnere appena assunto in Italia (dunque un miracolato) mi ha raccontato il colloquio con il manager delle risorse umane: “L’orario è di otto ore, come dice il contratto. Ma noi ci aspettiamo una presenza lavorativa di undici ore”. Racconta il felice neo assunto che nessuno, in quella impresa, resta sul posto meno di undici ore, e che la gara è lavorare di più per una paga minore. Eppure non sanno se stanno lavorando per il comune futuro di impresa e dipendenti o per un accumulo di ricchezza, a metà strada fra la siccità che si espande e l’abbondanza di paradisi terrestri, che sono altrove e non sono soggetti ai tagli.
Sul New York Times del 13 giugno Paul Krugman, giornalista brillante e Nobel per l’economia, ha scritto con sarcasmo che esiste, da qualche parte, nel mondo dei grandi regolatori della finanza internazionale, un “Pain Caucus” o Comitato della Sofferenza. Decide di volta in volta dove cadrà il taglio, e come rendere più aspra la vita dei cittadini. “Sono molto fantasiosi i membri di questo comitato della sofferenza – sostiene Krugman – E trovano sempre un modo nuovo per infierire. Però una cosa è certa: si impegnano a tener fuori da preoccupazioni e fastidi la grande rendita”. In altre parole, Krugman propone una chiave di lettura: non c’è siccità di risorse. C’è una parte del mondo che mette al riparo enormi ricchezze, e autorità finanziarie e monetarie che ne proteggono il percorso imponendo politiche così dure sugli individui che lavorano, che possono abbattere un intero Paese (vedi la Grecia, che tutti ormai ci siamo abituati a considerare una pericolosa fuori legge).
Se qualcuno dei lettori vorrà raccontare questa battuta di Krugman, ricordi che l’estroso commentatore del New York Times non frequenta i Centri sociali. Ha la cattedra di Economia all’Università di Princeton, Stati Uniti.
Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2011
Nessun commento:
Posta un commento