Sondaggio Demos-Coop. Il ceto medio diventa minoranza. Commercianti e artigiani sono lentamente scivolati verso il basso. E il 44% dei professionisti si dichiara precario
di ILVO DIAMANTI
C'È INSODDISFAZIONE in Italia. Un'insoddisfazione sorda ma non più muta. Trapela da mille segnali, piccoli e grandi. Le proteste sociali che si susseguono, da mesi. In modo ostinato e insistente. Nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. L'abbiamo riconosciuta, da ultimo, nel voto amministrativo. Che ha rivelato cambiamenti profondi. E inattesi. Dietro a tanta insoddisfazione si colgono tanti motivi, di natura diversa. Uno, però, risulta evidente. L'ascensore sociale è in discesa, da troppo tempo. Per usare un ossimoro. I dati dell'Osservatorio di Demos-Coop, al proposito, sono espliciti. Anzitutto, la classe sociale (percepita dagli italiani). Per la prima volta, da quando conduciamo i sondaggi dell'Osservatorio, la piramide si rovescia completamente. Senza "mediazioni". Infatti, le persone che si collocano nella "classe operaia" oppure fra i "ceti popolari" superano, per estensione, quelle che si sentono "ceto medio". Dalla cetomedizzazione degli anni Ottanta - un neologismo ostico ma suggestivo, coniato da Giuseppe De Rita - si sta scivolando verso una sorta di "operaizzazione". Singolare destino, visto che da tempo si predica l'estinzione della classe operaia. Tuttavia, l'indicazione del sondaggio è esplicita. Il 48% del campione nazionale dice di sentirsi "classe operaia" (39%) oppure "popolare" (9%). Il 43%: "ceto medio". Il 6%, infine, si definisce "borghesia" o "classe dirigente". È l'unico settore sociale stabile. (Le classi privilegiate, d'altronde, sentono la crisi meno delle altre. Anche se la temono.) Invece, il peso del "ceto medio" è sceso di 5 punti negli ultimi tre anni e di 10 negli ultimi cinque. Simmetricamente, l'ampiezza di coloro che si sentono "classe operaia" oppure "popolare" è cresciuta di 3 punti negli ultimi tre anni e di 9 negli ultimi 5. Prima causa: lo slittamento dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti). Metà di essi oggi si posiziona nei ceti popolari. Lo stesso avviene per circa un terzo di impiegati e tecnici.
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Peraltro, l'insoddisfazione verso l'economia e il mercato del lavoro, secondo il sondaggio Demos-Coop, non è mai stato tanto elevata. Verso l'economia: nel 2004 coinvolgeva il 59% della popolazione, oggi il 71%. Verso il lavoro: nel 2004 era espressa dal 60% della popolazione, oggi inquieta il 75%. La delusione sociale: investe tutti. La novità assoluta è che il senso di declino sociale non riguarda i "soliti noti". Operai, pensionati e disoccupati, su tutti. Ma risucchia altri gruppi, che si è soliti collocare (e fino a qualche anno fa si collocavano) più in alto. Nei ceti medi. Perfino nelle classi dirigenti.
Una quota ampia di lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto di liberi professionisti (44%) oggi definisce la propria condizione di lavoro "precaria".
D'altra parte, basta considerare il lavoro realmente svolto nell'ultimo anno dagli intervistati. Una componente ampia di essi (il 17% sul totale) dichiara di aver lavorato in modo temporaneo, per una parte più o meno ampia dell'anno. Si tratta dei giovani, soprattutto. E degli studenti (28%). Una generazione precaria, si è detto. È, effettivamente, così. Una generazione senza futuro. Il 63% del campione ritiene, infatti, che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei genitori. E il 56% ritiene che i giovani, per avere speranza di carriera, se ne debbano andare via. All'estero. Ne sono convinti, per primi, gli interessati: il 76% di coloro che hanno meno di 25 anni. Tuttavia, la precarietà è un sentimento diffuso. Che attraversa tutti i settori sociali. L'insoddisfazione verso la situazione economica e del mercato del lavoro, infatti, oltre che fra i disoccupati, raggiunge il massimo livello tra i liberi professionisti e i lavoratori autonomi. Ed è alta anche fra i tecnici e gli impiegati. Dal punto di vista della classe sociale: inquieta soprattutto coloro che si sentono "borghesia" oppure "classe dirigente". Non è poi così sorprendente. Il fatto è che non ci sono abituati. Per cui temono di perdere i privilegi di cui dispongono.
Si spiega così la perdita di appeal del "lavoro in proprio". Ma anche la parallela ripresa dell'attrazione esercitata dal lavoro pubblico (soprattutto nel Mezzogiorno). Nonostante da anni venga stigmatizzato da autorevoli esponenti del governo. Non è che i cittadini provino un'insostenibile voglia di fare i "fannulloni". È il senso di insicurezza che pervade il lavoro. L'economia. Magari non è una grande novità, potrebbe eccepire qualcuno. È vero, ma non del tutto. Perché fino a poco tempo fa funzionava un meccanismo psicologico che disinnescava gli effetti politici della delusione economica e sociale. Anzi: li rivolgeva a scapito dell'opposizione. Una sinistra "impopolare". Sempre più in difficoltà nell'intercettare il consenso dei dipendenti privati e dei ceti sociali più precari. Rannicchiata - e quasi accerchiata - dentro il perimetro dei pensionati e del pubblico impiego. Soprattutto degli insegnanti e delle figure "intellettuali". Da qualche tempo, questa spirale senza fine sembra essere giunta alla fine. Il processo di operaizzazione e di discesa sociale sta producendo - ha già prodotto - effetti politici evidenti. E sembra sempre più arduo, per il governo e per il suo capo, proseguire nella strategia della dissimulazione. Dire, da un lato, che non è vero. Trattare chi predica sfiducia da nemico della nazione. Dell'Italia.
D'altra parte, non è facile scaricare le colpe e le paure della crisi sempre sugli "altri". Gli immigrati e gli stranieri. Poi, l'euro e l'Unione Europea. Sul piano interno: Roma padrona e il Sud spendaccione. O, viceversa, il Nord egoista. Alla lunga, il meccanismo si è logorato. Difficile dire che la crisi non c'è. Che le cose vanno bene. Che noi stiamo bene. Che bisogna avere fiducia (ora). Che gli operai non esistono. Se mezza Italia, ormai, si sente e si dice operaia. Se i ceti medi e perfino i borghesi hanno paura. Se i giovani pensano di fuggire dal Paese. Se i genitori, per non parlare dei nonni, non hanno argomenti validi per trattenerli. Ed è difficile scaricare le colpe sull'opposizione, che da anni latita. Ma è difficile, per la maggioranza, anche prendersela con il Sud o con il Nord. Spostare i ministeri da Roma a Milano. Visto che in entrambi i casi significa prendersela con se stessa. La Lega del Nord contro il Pdl romano - e del Sud. E viceversa. Così - "forse" - dopo tanti anni, siamo giunti alla resa dei conti. O almeno: all'assunzione di responsabilità. Se piove e fa freddo, se l'orizzonte è scuro. Non può essere - sempre e solo - colpa degli "altri".
repubblica.it
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